Strano destino quello che ha finito per accomunare Charles Bradley a Sharon Jones. Scoperti e valorizzati dalla stessa etichetta, la Daptone, in età non più giovane e proprio per questo l’entusiasmo e l’energia che mettevano ogni volta che salivano su un palco era palpabile. Entrambi se li è portati via un cancro, a neppure un anno di distanza. Bradley dallo scorso anno stava affrontando la malattia e sembrava sulla via della ripresa, era infatti tornato a tenere concerti in primavera, tuttavia le sue condizioni erano peggiorate ed era stato costretto ad annullare le date previste in autunno. Dopo alcuni singoli il suo esordio vero e proprio avvenne con “No Time For Dreaming” nel 2011, costruito come gli altri due dischi successivi, con la collaborazione di Thomas Brenneck, strumentista e produttore che in Bradley ha creduto fin da subito.  La sua vita, romanzesca a dir poco,  raccontata anche nel documentario “Charles Bradley: Soul Of America”, lo ha portato in giro per gli Stati Uniti, svolgendo i lavori più diversi, dal cuoco al tuttofare. Musicalmente la sua figura di riferimento era James Brown che vide all’Apollo nel 1962 e affascinò a tal punto il giovane Bradley che ne divenne un imitatore, esibendosi per anni sotto vari pseudonimi, il più famoso è probabilmente Black Velvet. Ricordiamo ancora con divertimento il suo concerto al Bloom di Mezzago nel novembre 2013 e la generosità totale del suo carattere, sudore, passione e spontaneità, riversato, quasi senza filtri, su qualsiasi pubblico si trovasse davanti. Gabriel Roth, fondatore della Daptone, ha raccontato così l’ultima conversazione con Bradley, “Gli ho detto che avrebbe continuato ad ispirare amore e musica per diverse generazioni. Ci ho provato, mi ha risposto Charles. Penso che volesse letteralmente abbracciare ogni persona sul pianeta”. Peccato davvero che l’abbraccio, umano e musicale,  non sia durato più a lungo.

Matteo Bossi

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