
foto Gianfranco Skala
“Ci sono moltissimi festival blues, più che in ogni altra epoca e ci sono molti eccellenti musicisti blues che vi suonano. Ma quanti bluesmen ci rimangono? Di quelli veri. Veterani con un vocione, cresciuti tra mille difficoltà in epoca pre-rock, quando lavorare voleva dire raccogliere cotone e la cena un piatto di fagioli dall’occhio”. Così scriveva Roger Stolle nelle note di copertina di “Round Two” di Big George Brock, uscito nel 2006. Queste parole contengono una domanda che anche noi ci siamo posti, specialmente negli ultimi anni in cui di bluesmen ne abbiamo persi tanti, troppi. Alla categoria apparteneva di diritto anche il Big George Brock, che ci ha lasciato il 10 aprile scorso, all’età di ottantotto anni. Una vita degna di un romanzo tra il natio Mississippi (era nato vicino a Grenada) e St. Louis, la città dove si era stabilito ed era stato gestore/proprietario in periodi diversi di tre club, tutti denominati Club Caravan. Ex pugile, la qualifica “big” una volta tanto era veritiera, in gioventù aveva steso persino Sonny Liston, Brock era armonicista dal suono pastoso e diretto, dalla carriera discografica irregolare. Un disco negli Ottanta, poi quasi nulla per anni, aveva beneficiato, grazie al citato Roger Stolle, di un ritorno inatteso nella prima decade del XXI secolo, con tre dischi, due in studio e uno dal vivo per l’etichetta creata appositamente e chiamata come il suo tempio laico di Clarksdale, Cat Head. Notevole era soprattutto il primo, “Club Caravan”, un’opera per certi versi d’altri tempi, “sincera e senza pretese, che oltre a rivelarsi una vera e propria sorpresa, finisce per pretendere, giustamente, di essere ascoltata”. (Il Bluesn 92).