jon cleary

A New Orleans Party Record. Ecco quale potrebbe essere il sottotitolo di questo nuovo album di Jon Cleary, uno dei più validi e stimati rappresentanti della tradizione musicale della Crescent City, luogo in cui ha trascorso di sicuro più tempo della sua vita rispetto alla natia Inghilterra. Perfettamente a suo agio in qualsiasi situazione si trovi a suonare, da solo (ricordiamo ancora un suo spumeggiante concerto piacentino al festival Dal Mississippi Al Po di qualche anno fa) o coi suoi Absolute Monster Gentlemen.

Per queste Bywater Sessions ha voluto allargare ancora la formazione, circondandosi oltre che dei suoi fidati pard, di una sezione fiati, l’organo di Nigel Hall (Lettuce), la chitarra di Xavier Lynn e le percussioni di Pedro Segundo. In un paio di brani viene anche a dargli man forte alla voce Harry Shearer, attore e musicista, nonché marito della brava Judith Owen che abbiamo potuto intervistare qualche mese fa. Produce il suo amico John Porter, ma siamo in una situazione dal vivo in studio, senza sovraincisioni.

L’ottetto trova una grande alchimia sonora, lanciandosi in interpretazioni trascinanti di dieci brani, vecchi o nuovi, più un paio di riprese di piccoli classici che pochi altri gruppi saprebbero maneggiare con altrettanta (in)credibile verve. Prendiamo “Just Kiss My Baby” di una band, i formidabili The Meters, che ha fatto scuola, qui in una interpretazione magistrale, con i suoi stop and go, che la rilanciano di continuo e un bel lavoro anche di Hall. O un pezzo di Lee Dorsey che Cleary esegue spesso in concerto, “Lottie Mo”, in cui ci ricorda come New Orleans sia stata definita, talvolta, la città caraibica più a nord, vista la contaminazione continua, sia essa ritmica, al sapore calypso in questo caso, ma anche, in senso lato, culturale o culinaria. Buonissima anche “Unnecessarily Mercenary”, un suo pezzo entrato a far parte anche del repertorio di Bonnie Raitt (era sul suo “Souls Alike”), qui in una versione densa di funk.

Sparso ovunque su queste tracce il piano del leader, ora percussivo ora fluido e iper-dinamico, indiavolato sui ritmi da second line di “Boneyard” che già faceva bella mostra di sé in “Go Go Juice”, il suo album del 2015 premiato con un Grammy.  O l’esilarante, contagioso ritornello di “Zulu Coconuts”, un pezzo che sembra fatto apposta per celebrare il Mardi Gras. Come dimenticare poi, l’omaggio ad uno dei suoi eroi, Professor Longhair, in una caleidoscopica, cangiante “Fessa Longhair Boogaloo”, in cui ripercorre alcuni temi del maestro e Pedro Segundo si fa valere tessendo un fitto tappeto di percussioni come era solito fare il grande Alfred “Uganda” Roberts sui dischi di Fess.

Un disco che non ci si stanca di ascoltare e garantisce una teletrasporto virtuale in una città speciale dove, come scrive Cleary nelle note, “la gente più che in ogni altro posto in cui sono stato, richiede vera musica, suonata davvero bene. Questo vogliono e questo cerchiamo di dare loro”. Ecco ci piace pensare di appartenere alla medesima ideale categoria. Sull’affiatamento e la qualità della performance di Jon e dei suoi, non avevamo nessun dubbio, sono bastate le note dell’iniziale, “So Damn Good”, col piano che suona quasi posseduto da qualche spirito dei grandi del passato. Visitatori del resto non insoliti a New Orleans e dintorni, come sanno, per esempio, i lettori di James Lee Burke.

Matteo Bossi

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