Intervista di Mike Stephenson

foto Mike Stephenson
Ci sono artisti che malgrado le loro qualità non sempre riescono ad emergere del tutto. Johnson è uno di essi, essendo oltretutto comparso tra le nostre pagine soltanto in un paio di occasioni.
Resta, per tanti versi, “un illustre, ma purtroppo poco conosciuto, soulman degli anni ‘60” per citare le parole di Fog nella sua recensione di una raccolta edita dalla Bear Family che riuniva dei 45 giri per Columbia, Okeh, Josie e Phillips e apparsa nel nostro n. 108. Colmiamo, almeno in parte, la lacuna, con questa intervista.
Il mio nome è Roy Lee Johnson ed ho cominciato a fare musica all’età di circa sette anni, imparando a suonare la chitarra. Sono nato a Centralhatchee, Georgia. C’erano ragazzi da queste parti che suonavano alle feste scolastiche, ma si lavorava molto nei campi perciò l’unica forma di intrattenimento era di andare a casa di qualcuno con una chitarra, sedersi sul portico o sotto un albero e suonare. I ragazzi si chiamavano Junior e J.C. Stroger, suonavano chitarre acustiche che noi chiamavamo le chitarre di Gene Autry. Vivevamo vicino ad una collina, con mio nonno, coltivavamo la terra e crescevamo cocomeri, cotone e mais. C’era un punto scendendo dalla collina in cui c’era un eco molto forte, potevi dire “hey” e ti tornava indietro.