BONNY JACK - Somewhere, Nowhere cover album

È pregnante la cura dell’immagine, per questo “bluesman esoterico” di scuola romana.

Ma all’anagrafe Matteo Senese, è in arte Bonny Jack con all’attivo due dischi, galeotta la pandemia e quel che ne è venuto fuori, se pure la sua musica si condensa in un tutt’uno col suo fare da imbonitore delle bayou, un po’ voodoo e un po’ western, amalgamandosi a tutt’un circo d’intorno, sì da farne un genere.

E l’estate, foriera di viaggi, in realtà ce lo riporta a casa, tra un dylaniano “Bringing It All Back Home” e un italiano “Riportando tutto a casa”, appunto, che era poi anche un disco degli emiliani Modena City Ramblers, nel solco della tradizione “tra la via Emilia e l’West” di gucciniana memoria, fino a collegare la Città eterna del nostro coi suoi diari americani, concretizzando il suo operato musicale nel sciacquare i panni alle fonti di ciò a cui si ispira.

Non intorta nessuno perciò, Bonny Jack, quando propone il suo “one-man show” che richiama un cliché da esibizione di strada, un po’ a ricordarci l’autoproduzione che fu anche di Elli De Mon, cantante di casa nostra sulla stessa lunghezza d’onda, oggi ad un cantautorato dialettale e anzitempo blues d’una “one-woman band”.

Così per Jack è “Somewhere, Nowhere”, uscito a inizi di stagione e bell’e pronto in concomitanza dei live intorno alla penisola, svolta acustica però rispetto alla tensione elettrica che percorreva l’altre produzioni: la prima “Bone River Blues”, quindi “Night Lore Blues”.

Ora è la volta delle undici tracce di questo nuovo approdo 2025, nutrito d’un periodo “on the road again”, chilometraggio blues, se è vero che questa musica s’impara suonando, e “Somewhere, Nowhere” quello è, pur intriso dei mille rivoli a caratterizzarne il fare un po’ roots e un po’ folk, un po’ spiritual e pregno d’umori misteriosi e ancora gris gris, alla Dr. John.

Non è un lavoro low-fi, certo, Somewhere, quanto piuttosto abbellito da richiami acustici curati, come la “Carnival Valley” che è un po’ la hit del disco.

Il contrasto, l’ossimoro, fin dal titolo tessono ad arte le trame di Bonny Jack, e nei suoi testi sono infatti vita e morte, perdizione e redenzione, giorno e notte a nutrire un immaginario ben orchestrato, fin troppo artefatto alle volte, comunque ben fatto.

La presentazione di zio Jack così è proprio con “Uncle Jack”, per esempio, la prima, col violino di Brian D. in grande spolvero.

Ma non è l’unica, dove le ospitate non rendono che questo disco qualcosa mai scarno ed essenziale, quanto piuttosto un recitato sonoro accurato e ricco, talora barocco nel caratterizzare danze come “DamaJuana” o invocazioni cantate come “Mother Moon”, come di prigionieri in catene al limitar della ferrovia.

A noi piace citarvi anche “Homeland”, quanto le precedenti “The Glacier” o “Wake Up”, ove la forza evocativa delle songs non è mai minimale, ma è piuttosto (con Andrea Vettor alle percussioni; Ren Vas Terul all’armonica; Angela Foshi alla fisarmonica; Tyler R. alla tromba) un’intensa colonna sonora a tema di un onirico western assolato.

Quasi un concept o soundtrack per chi ama il cinema e i parchi tematici … ma alla Stephen King!

Matteo Fratti

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