Incontro con Walter Trout
di Luca Zaninello
Il nuovo “Sign Of The Times” è un album che non si risparmia, né emotivamente, né musicalmente, né nei testi: la chitarra di Walter Trout è ancora una volta energica e coinvolgente, così come la sua voce continua ad avere la grinta di sempre. Abbiamo incontrato il chitarrista poco prima della partenza della sua tournee estiva.
In questo disco c’è forse per la prima volta nella tua carriera un senso di rabbia e urgenza: in che modo l’attuale clima sociale ha influenzato la tua scrittura?
Beh, sì, c’è rabbia, c’è preoccupazione e questo si sente nell’album. Una mia cara amica che conosco fin da quando ero bambino mi ha detto che questo album è molto cupo. Io le ho risposto: ”guarda i tempi in cui viviamo, sono tempi cupi per il mondo e in particolare per il mio paese”.
Hai collaborato strettamente con tua moglie Marie alla stesura dei testi: come avete lavorato durante la realizzazione di questo album?
Io e lei scriviamo insieme da moltissimo tempo; ci stavo pensando proprio l’altro giorno: la prima canzone che abbiamo scritto risale al 1991, perciò lo facciamo da un po’. Per questo lavoro non abbiamo potuto fare a meno di riflettere e cercare di far luce su ciò che pensiamo stia accadendo nel mondo. Per esempio, avevo in mente una canzone che volevo fosse come il pianto e il lamento degli oppressi, degli emarginati e dei dimenticati del mondo, con un ritornello nel mezzo: avevo la musica, il ritornello, ma non le parole. Poi Marie è arrivata e mi ha detto: “ecco, ho scritto un testo, è un segno dei tempi”. C’è una riga che dice: “intorno a me sento voci di disperazione” che si adattava perfettamente al ritornello: quindi non ho cambiato una sola parola di quello che mi ha dato. Quella canzone era destinata a nascere perché si adattava perfettamente alla musica.

Walter Trout – foto di Leland Hayward
Proprio la title track è una delle più sperimentali: cosa ti ha spinto a superare i confini del tuo sound?
C’è una storia strana dietro a questo perché, come ti dicevo, inizialmente avevo la musica, ma la stavo suonando con una chitarra acustica, come una canzone folk. Ma quando è arrivato il testo ho pensato che andasse cambiata: mi sono chiesto se saremmo riusciti a gridare la nostra rabbia contro il sistema, capisci, e così l’abbiamo affrontata in questo modo e la mia band ha suonato quella canzone alla grande. Senti soprattutto il basso, è incredibile.
Subito dopo c’è invece una traccia come “Mona Lisa Smile”, una ballata acustica, con fisarmonica e violino: è un genere di canzone abbastanza nuovo che ascoltiamo nei tuoi dischi?
Sì, mi piace provare cose nuove e volevo che fosse una specie di canzone folk messicana, che sembrasse provenire dal confine messicano con il Texas. Mentre la scrivevo, pensavo a qualcuno come Willie Nelson o qualcosa del genere, capisci?
E poi ci sono brani come “Artificial” che affrontano l’impatto della tecnologia e dell’intelligenza artificiale: come vedi il ruolo della musica blues nell’affrontare temi così moderni?
Mi auguro che gli artisti blues, e non solo, affrontino questi temi. Io ho lavorato per tanti anni con John Mayall , che ha scritto canzoni su tutto: sul cambiamento climatico, sull’inquinamento atmosferico, sulla Prima guerra mondiale. Ha scritto canzoni su ciò che stava accadendo nel mondo e mi ha sempre ispirato a voler fare lo stesso; quindi spero che anche altri musicisti che suonano blues affrontino questi temi. L’ispirazione originale di John Mayall era J.B. Lenoir, un altro che ha scritto canzoni di questo genere, come “Eisenhower blues”.

Walter Trout – foto di Leland Hayward
La tua/vostra creatività mi pare che si mantenga sempre molto viva, capace di affrontare temi forti e talvolta controversi: che cosa ti spinge a scrivere su un argomento specifico?
Se qualcosa mi preoccupa e sento il bisogno di dire qualcosa cerco di tradurlo in musica. C’è una canzone che si intitola “Hurt No More” che inizia dicendo “Mi sono tagliato, mi sono fatto del male, ma ho dato via il coltello perché ho capito quanto voglio aggrapparmi alla mia vita”. Questa è una metafora di quando ero un eroinomane e un alcolista, però non avevo una seconda strofa: poi Marie mi ha ricordato che, quando ero un tossicodipendente, non facevo del male solo a me stesso, ma anche alle persone che mi amavano. E così, nella seconda strofa di quella canzone, ho visto i volti di coloro che mi vogliono davvero bene e ho completato il brano.
Dal disco emerge un grande affiatamento con la tua band?
Assolutamente sì, per me è una grande gioia suonare con loro la musica e i testi che scrivo, in cui credo: non mi piace lavorare con musicisti di studio che se ne stanno seduti con uno spartito davanti. La mia band suona tutte queste canzoni con impegno, sentimento, con energia e passione. Ed è proprio questo che voglio dalle persone con cui suono.
Hai parlato del potere curativo della musica, sia a livello personale che per il tuo pubblico: cosa speri che gli ascoltatori traggano da Sign Of The Times, specialmente in questi giorni difficili?
Spero che le canzoni li commuovano, in qualche modo: sono brani molto pensati, non sono canzoni leggere, usa e getta. Ho cercato di creare qualcosa di profondo, in grado di entrare nel cuore delle persone, di farle riflettere, e comunque sempre di dare gioia.










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