kokoroko

Nati nel 2014 grazie all’incontro tra la trombettista Sheila Maurice-Grey e il percussionista Onome Edgeworth durante un viaggio in Kenya, i Kokoroko mirano all’avvicinamento dei giovani al tema della diaspora africana e a generi musicali come l’Highlife e l’Afrobeat. A due anni dall’uscita di Could We Be More, i Kokoroko sono tornati in studio per registrare questo Tuff Times Never Last che permette alla band di cavalcare ancora l’onda della scena jazz londinese, virando però stavolta verso lidi sonori più morbidi e meno impegnati.  

“Never Lost” apre il disco con un’impronta che ricalca i precedenti passi vividi dell’esordio discografico, ma già in questo pezzo si assapora un’atmosfera più dilatata rispetto al lavoro precedente. I fiati a metà brano accennano in sottofondo un giro ripreso dalle magnifiche canzoni di Otis Redding, ma si interrompono bruschi per lasciare subito spazio agli altri strumenti che chiacchierano senza fretta alcuna.
“Sweetie” scivola via danzando leggera tra carri mascherati per le vie della città, piroetta sul ritornello e avanza a passi ampi fino a stringere la mano alla tromba che introduce la coralità delle voci, pronte a coinvolgere la comunità in questa graziosa sfilata di suoni morbidi e festose risate.

Con “Closer To Me” si sfiorano le spiagge degli anni ‘80 coi loro tramonti arancio e rosa, le curve della sabbia dorata, un calice di spumante tra le dita, il gazebo che si lascia carezzare dal vento, gonfiando e sgonfiando le sue vele. Tutto in questo pezzo è patinato, in senso positivo, fermo nel tempo, sospeso. Fa venire voglia di rallentare, tirare giù il finestrino, togliersi le scarpe ed entrare in questa bolla di relax.  Proseguendo l’ascolto ci si imbatte in “My Father In Heaven” che punta tutto su voci e tastiere, dando vita ad un gospel fresco e moderno. 

“Idea 5 (Call My name)” torna alla ritmica della batteria e ai fiati, l’avanzamento musicale è sempre molto spazioso, ampio, calmante. Ancora una volta abbiamo la sensazione visiva di colori tenui, rassicuranti, come pastelli al tramonto. I colori si fanno invece a tinte forti in “Three Piece Suite” che cambia direzione andando verso un passo ritmato più marcato e una melodia fatta di intrecci sonori, pseudo fischi che ricordano versi di uccelli tropicali e un crescendo vocale che rompe gli argini come un fiume in piena. La foresta amazzonica fatta a canzone.  

“Time And Time” probabilmente è il pezzo più debole del disco e rischia di passare per la classica canzone da aperitivo chillout. I fiati qui e là le regalano un po’ di struttura, ma non basta per salvarla dal suo destino. 

Con la successiva “Da Du Dah” torniamo a far visita agli anni ‘80-90, immergendoci in un brano nu jazz che rilassa, diverte e al contempo fa ondeggiare chi l’ascolta, come un’alga in fondo al mare. “Together We Are” si riallaccia al gospel moderno, con un crescendo etereo che innalza tutto verso il cielo e un solo di tromba che conduce infine a una sorta di immaginario scontro elettronico tra inferno e paradiso. Stop. Risatina. Prossima canzone.
“Just Can’t Wait” è molto pop nella struttura, ma al contempo di stampo gospel grazie alle voci che creano un loop corale. I fiati, onnipresenti, tornano al magnifico afrobeat che caratterizzava i primi Kokoroko. 

“Over / Reprise” chiude questo Tuff Times Never Last con l’ennesimo pezzo dal mood “easy”, un signor brano non fraintendiamo, forse tra i più belli all’interno del disco assieme a “Never Lost”. Una canzone questa che può tranquillamente essere concepita come il riassunto perfetto dell’intero disco, con tutte le sue influenze pronte ad intrecciarsi dando vita ad un macramè di modernità, creato però sapendo bene quali sono le proprie radici.
L’orecchio conclude questo percorso musicale completamente rilassato e riappacificato col mondo.
C’è l’estrema voglia di rallentare, di godersi la semplicità, la leggerezza, un raggio di sole.
Inspiriamo, espiriamo.
Chiudiamo gli occhi.
Godiamoci il torpore.  

Sara Bao

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