
Chaney Sims (foto Mario Rota ©)
Arriviamo a Glasgow verso le sei di pomeriggio e fa freddo, molto freddo. Tira un vento gelido che porta piogge intermittenti e spazza le strade. Solo il tempo per il check-in in hotel, per una doccia veloce e siamo pronti per lanciarci nel Celtic Connections, uno dei principali festival musicali nord europei, quest’anno giunto alla ventesima edizione e che si è chiuso il 3 febbraio scorso. Duemila artisti da tutto il mondo, venti location differenti, quattro/cinque main events quotidiani, decine di eventi privati, centinaia di concertini agli angoli delle strade, innumerevoli le jam session improvvisate negli hotel dove risiedono gli artisti, sono i numeri di questa grande kermesse lunga quasi tre settimane. Intorno a me band che sfrecciano in ogni direzione cariche di ogni sorta di strumenti, ragazzini che discutono di un violino o di come suonare al meglio una cornamusa, musicisti impegnati in shooting fotografici (di solito col sottoscritto), manager di mezzo mondo che si incontrano per presentare gruppi e per organizzare tournée. Ovunque negozietti di dischi di seconda mano in cui tuffarsi (io stesso ho trovato un vinile di “The Natch’l Blues” del 1968 autografato da Taj Mahal).