Per alimentare la splendida serie “From The Vaults”, Bob Corritore attinge, nel corso del tempo, da un favoloso archivio che contiene veri e propri gioielli. È appena uscito l’album del grande Willie Buck che Bob Corritore mette in primo piano sull’etichetta Vizztone, seguendo l’esempio degli artisti che l’armonicista di Phoenix (AZ) ha registrato nel corso degli anni durante i loro passaggi nel suo famoso club il “Rhythm Room”. Mentre Bob Corritore, armonicista e instancabile giramondo e vero leader dei promotori del blues da diversi decenni, non ha più bisogno di presentazioni, può essere utile soffermarsi sul caso di Willie Buck.
Il suo vero nome è William Robert Crawford, questo vivace ottantenne è, a 88 anni, un veterano del Chicago Blues. Nato a Houston, non la città spaziale del Texas ma una piccola città del Mississippi a sud di Tupelo, il 26 novembre 1937, Willie si è stabilito nella città dei venti nel 1954. Come altri, ha frequentato il gotha della scena locale dell’epoca (da Muddy Waters a Little Walter, passando per Buddy Guy & Junior Wells).
Per molto tempo Willie ha considerato la musica solo un hobby (era sposato e lavorava come meccanico di auto). Nonostante un promettente primo album, “It’s Alright”, pubblicato nel 1982 dall’oscura etichetta Bar-Bare Records e registrato con Johnny “Big Moose” Walker, i fratelli Dave e Louis Myers, John Primer e Little Mack Simmons, dovrà aspettare quasi trent’anni per riemergere inaspettatamente sulla scena di Chicago. Nel frattempo, nel 2010, la Delmark finì per ristampare il suo primo album con il titolo “The Life I Love” (arricchito da cinque bonus live).
Nel 2012, “Cell Phone Man” (sulla stessa etichetta di Bob Koester) riscosse un discreto successo di critica. Poi, nell’agosto 2024, la Delmark pubblicò “Live at Buddy Guy’s Legends”, registrato il 28 agosto 2023, che lo vedeva accompagnato dai Delmark All-Stars (Billy Flynn e Thaddeus Krolicki alle chitarre, Scott Dirks all’armonica, Johnny Iguana al pianoforte, Melvin Smith al basso e alla batteria il compianto Willie “The Touch” Hayes, scomparso pochi mesi dopo, il 5 novembre 2023
Bob e Willie sono amici dalla fine degli anni ’70. Poi Willie gli propose di unirsi alla sua band. Bob, amico fedele, non mancò di ricambiare il favore e lo invitò a esibirsi più volte nel suo club aperto all’inizio degli anni ’80, il famoso Rhythm Room di Phoenix. I 10 brani di “Oh Yeah” sono stati registrati in due sessioni nel 2021 e nel 2023, oltre a un brano registrato nel 2010. Oltre a Bob, troviamo immancabilmente Bob Margolin (il chitarrista storico e ufficiale di Muddy Waters) in sei brani, Billy Flynn alla chitarra in altri tre, Big Jon Atkinson e Mojo Mark Cilhar ciascuno in un brano, e l’onnipresente Jimi “Primetime” Smith.
La sezione ritmica è composta dal leggendario Bob Stroger al basso e dall’impeccabile Wes Starr alla batteria. Si sono uniti a loro il meglio dei pianisti Antony Geraci e il giovane e brillante Ben Levin. L’album è prodotto da Kid Andersen, Clarke Rigsby e John Wroble ed è stato registrato allo studio Tempest Recording di Tempe, in Arizona. Due terzi dei brani sono firmati da Willie Buck, ai quali si aggiungono tre standard (tra cui il famoso “Baby Please Don’t Go” di Big Joe Williams, qui erroneamente attribuito a Muddy Waters), “She’s Alright” e “Oh Yeah” di Bo Diddley. L’album è permeato dal classico blues di Chicago degli anni ’50-’60, come “Oh Yeah” del 1958. Willie Buck, la cui voce è ben posizionata anche se leggermente velata dal passare del tempo, colpisce sempre nel segno.
La cromatica di Bob soffia con precisione come ai bei vecchi tempi di Little Walter, mentre la chitarra di Billy Flynn evoca quella di Sammy Lawhorn o Jimmy Rogers e il pianoforte aereo di Ben Levin si inserisce nel boogie di Pinetop Perkins o Sunnyland Slim. Segue l’ipnotica “She’s Alright” di Muddy Waters, uscita nel 1968, con la voce particolarmente potente di Buck e l’incisiva chitarra slide dell’instancabile Margolin. Con una band particolarmente affiatata, in cui gli strumenti si rispondono sottilmente, si assapora qui la perfetta illustrazione del suono del classico Chicago Blues.
“That Ain’t Enough”, che ricorda molto “She’s Nineteen Years Old” del Maestro Muddy Waters, permette a Margolin di mostrare tutta la sua abilità con la slide, mentre “Brand New Cell Phone”, con il suo tradizionale backbeat blues, rimanda al suo successo del 2012. Se vogliamo essere pignoli, possiamo anche trovare evidenti somiglianze tra “Money Can’t Buy Everything” e “I’m Ready” di Willie Dixon. Ma poco importa, perché la qualità prevale sulle facili critiche.
Ascoltate l’armonica cromatica di Bob che fa meraviglie su questo tempo medio-veloce. Registrato nel 2010, “Went Home This Morning” si inserisce nella tradizione di Jimmy Reed, arricchita da una pozione magica degna dei grandi nomi dello Swamp blues Lazy Lester e Slim Harpo. “She Turned Me Down” è un clone di “Nine Below Zero” di Rice Miller, sublimato dal fluido pianoforte barrelhouse di Anthony Geraci.
Gli ultimi tre brani, “Baby Please Don’t Go” con un tempo rinnovato, “Me an My Baby” e “Let Me Find Out Your Name” (da apprezzare il superbo mano a mano dei due Bob) sembrano essere stati aggiunti per permettere a Willie Buck di brillare in eco a McKinley Morganfield, la cui ombra e aura sono onnipresenti in tutto questo album. Con Willie Buck, il classico blues di Chicago bussa alla vostra porta, fatelo entrare nel vostro salotto e mettetelo sul giradischi… È giunto il momento di assaporarne la quintessenza! Indispensabile.
Philippe Prétet










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