jon batiste

Classe 1986, Jon Batiste, originario di New Orleans, negli ultimi vent’anni si è costruito una solida carriera, all’insegna dell’eclettismo. Pianista e cantante di talento, ha fluttuato tra i generi, dal jazz al rhythm and blues e quasi tutto quello che si trova in mezzo, passando da colonne sonore (il fortunato Soul della Pixar) o l’essere stato per diversi anni il capobanda del Late Show di Stephen Colbert. Pluripremiato ai Grammy, è stato anche protagonista del documentario American Symphony (Netflix-2023), incentrato sulla composizione da parte sua, appunto, di una sinfonia e sulla malattia della moglie.

Se il suo album precedente, “Beethoven Blues”, lo vedeva alle prese con un repertorio classico, a nemmeno un anno di distanza arriva questo “Big Money” (Verve), un progetto di tutt’altro tenore, più vicino a sonorità tradizionali, siano esse blues, ballate o brani vicini al soul. Sono nove composizioni, otto delle quali originali, per poco più di mezzora di buona musica, scritta da lui stesso o in collaborazione con altri, quali Nick Waterhouse, Ernest Wilson o Mike Elizondo.

Un recupero e assieme una rivendicazione del sostrato alla base della sua musica e alla sua concezione, per così dire, sociale di essa. Lui che proviene da una famiglia di attivisti ha scelto di scrivere testi incentrati su ecologia, capitalismo e, più in generale, le connessioni umane.  Realizzato nel giro di poco tempo e con diverse prime take, per catturare l’immediatezza della performance, l’album vede Batiste alle prese con vari strumenti a tastiera ma qualche volta anche cordofoni (chitarra, mandolino, basso), oltre ad un gruppo di musicisti che cambia di brano in brano.

Si comincia con “Lean On My Love”, duetto un pezzo soul molto anni Settanta, tra Bill Withers e Al Green, in duetto con Andra Day, cantante e attrice protagonista de Gli Stati Uniti Contro Billie Holiday di Lee Daniels. Anche “Big Money”, una riflessione sulla disuguaglianza, rimanda al rhythm and blues anni Cinquanta, un po’ alla Johnny Guitar Watson, con tanto di fiati e cori (le Womack Sisters) e un ritmo quasi alla Bo Diddley dato dalla chitarra acustica.

Inatteso ed estemporaneo, me davvero bello, il duetto solo piano e voci, con Randy Newman, inciso a casa dell’ottantaduenne musicista sulle note di “Lonely Avenue”, scritto da Doc Pomus e portata al successo da Ray Charles nel 1956, un riferimento dichiarato per entrambi. Molto esplicito il messaggio del breve blues “Petrichor”, un termine che fa riferimento all’odore della terra dopo la pioggia, quasi un talking in cui tutti gli strumenti sono suonati da lui stesso. “They burning the planet down” ripete il brano, e fa riflettere a vent’anni dalla devastazione di Katrina che ha colpito la sua terra natia.

Nella seconda parte dell’album trova posto altrettanta varietà, si passa infatti da un pezzo rockabilly, “Pinnacle”, con una ritmica da Sun Records ad una splendida ballad, solo piano e voce, “Maybe”, mentre nel finale spariglia ancora le carte con un reggae gentile, “Angels”, con la partecipazione di No ID (alias Dion Wilson). Più stringato e diretto di altri suoi lavori, “Big Money”, conferma il talento e l’approccio trasversale di un talento come Batiste, che sarà in concerto a Milano a inizio novembre.

Matteo Bossi

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