Simone Galassi cover album

Ci basti una foto di Simone Galassi che lascia un plettro sulla tomba di Rory Gallagher, per capire dove comincia questa storia.

Da quella famosa “top five”, con Eric Clapton, Jeff Beck, Jimi Hendrix e Jimmy Page, di cui ci disse proprio il chitarrista Dennis Greaves dei Nine Below Zero (quando l’incontrammo col bassista Gerry McAvoy, per dieci anni assieme al grande bluesman celtico) che di Rory, ci fa – “… ora, è là in alto coi grandi”.

È un omaggio, così, più che sentito, quello di questo chitarrista modenese, in pellegrinaggio al St. Oliver’s Cemetery di Cork, ma che la dice lunga anche attraverso i suoi trent’anni di attività, dove lo spirito immortale di quegli storici “idoli” rivive, non c’è che dire, anche attraverso il suo strumento.

Quel linguaggio, Galassi, lo ha fatto proprio, calcando i palchi che pure lo hanno visto da tempo in azione, non solo in Italia, ma anche all’estero, nei progetti per Hendrix, in trio, o per lo stesso Gallagher, con gli Irish Fire, e molto altro ancora.

Simone Galassi: l’album

I tempi non potevano che essere maturi per un suo lavoro solista, che il musicista emiliano pubblica, omonimo e indipendente, ma altrettanto autografo (se non per un terzetto di tracce “a quattro mani”, con Martin Lee o Alda Lolli) nella decina di canzoni in inglese, a formare questo suo debutto.

Una registrazione “vintage” nient’affatto nostalgica, ma fedele ad un gergo compositivo “circoscritto” a quei fantastici anni, che di un sound ormai “classico” ne hanno condensato i canoni.

A venirgli in supporto, il polistrumentista bresciano Carlo Poddighe, che lo ha interamente registrato e prodotto, filtrandone il “tocco” attraverso una strumentazione “d’annata”.

Pochi fronzoli e il risultato non tarda ad arrivare: per quel che è, come se l’estate dei “figli dei fiori” non fosse mai finita, ma le guerre, quelle si, che non finiscono mai! Suona allora, Galassi, la sua “strato” col palettone in grande spolvero, gli strali lancinanti ad omaggiare il mancino di Seattle, quanto gli idiomi chitarristici nel gergo dei “maestri”, bruciando d’elettricità ogni “pezzo” che passi dalle sue mani.

Un manifesto poetico, quest’album, a simbolo d’un’iconografia più classica che mai, ma al contempo identitaria per chi, di quel gergo, ne ha fatto la sua “parlata”.

Un coacervo di ricordi all’attacco di “These Chains” in apertura, ad esempio, più esplicito rimando all’hendrixiane “Stone Free” o “Crosstown Traffic”; la hit invece “I Have To Tell You” che scompare al novero di brani migliori, come “I’ll Never”, inseguendo un gioco di rimandi che ci fa pensare, qui, agli Zep di “Immigrant Song”.

E se “95” non si discosta da echi elettro – funky al paio con “In Your Eyes” (e punte di solismi “nasali” marchiati Fender) è “Since You’re Gone” una ballad centrale, che ritrova umori gallagheriani, tra “I Fall Apart” e l’immarcescibile “A Million Miles Away”, in odori atlantici e piovosi.

Sicché, se “Damnation” potrebbe ripetersi un po’, sono i “double – stop” della stratocaster in “Shooting Stars” a suscitarci vibrazioni emotive che solo un brano così ci può dare, intimo e cristallino.

L’ultima, “Hazy Nights”, apre invece a quel che dell’hard – rock ci raggiunge, dall’epoca che “Simone Galassi” racconta, in un debutto senza tempo, classico come il sound cui ci rimanda.

Matteo Fratti

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