Classe 1979, la stessa di Derek Trucks, Monster Mike Welch iniziato anche lui da adolescente a farsi conoscere ed apprezzare e negli ultimi trent’anni a messo insieme quasi una decina di album a suo nome, a partire dall’esordio “These Blues Are Mine” (1996), per la Tone-Cool di Richard Rosenblatt. Cresciuto nel New England, Welch si è guadagnato la stima di tanti colleghi che ne hanno richiesto i servigi per i loro dischi e, in parallelo alla sua carriera, ha fatto parte per lungo tempo di Sugar Ray & The Bluetones. Questa esperienza si è conclusa con l’avvio di un’altra associazione, quella con Mike Ledbetter, per l’ottimo album “Right Place Right Time” e molti altri ne sarebbero con tutta probabilità seguiti, non fosse stato per la tragica scomparsa di Ledbetter, avvenuta nel 2019.
Da allora Welch si è rimesso al lavoro e due anni fa ha pubblicato “Nothing But Time” per la Gulf Coast, registrato ai Greaseland di Kid Andersen. Ad esso segue ora questo “Keep Living Til I Die”, inciso nello stesso luogo, con un gruppo più ristretto, in pratica un quartetto con Fabrice Bessouat (batteria), Brad Hallen (basso) e Brooks Milgate (tastiere), stavolta pubblicato in proprio.
È un lavoro intenso e diretto in cui, forse come mai prima d’ora, Welch racconta sé stesso e il periodo difficile che ha attraversato tra lutti, la scomparsa della madre, e problemi di salute e suona quindi come un’affermazione della vita, nonostante tutto. Ciò è particolarmente evidente in due brani autografi, tra i migliori dell’intero album, in primo luogo la canzone titolo, un blues a tempo medio e poi la lunga, densa “Do What You Want With My Grave”, una riflessione sulla mortalità con riferimento al classico di Blind Lemon Jefferson e musicalmente pare un incrocio tra Dylan e Jimmy Dawkins. Migliorato anche al canto, spontaneo nel dar libero corso alle sue emozioni.
Le qualità chitarristiche di Welch sono assodate e anche qui ne dà abbondanti prove, pensiamo alla ispirata versione strumentale di un classico di Aretha Franklin, “Good To Me As I Am To You” (sull’originale alla sei corde c’era Eric Clapton) e all’altrettanto riuscita escursione su “Dear Landlord” (Bob Dylan), con ottimi interventi anche di Milgate. Tra le altre cover pesca dal passato un valido arrangiamento di “Hell Hound On My Trail” e dal presente “I Finally Hit The Bottom” di Rick Estrin, dall’ultimo lavoro coi Nightcats, ma è molto buona anche la sua “She Makes Time”, un pezzo che aveva già inciso su “Just Like It Is” (2007) qui rifatta in una versione più ruvida e secca.
Nel finale spiazza con due brani dall’atmosfera molto anni Sessanta, entrambi oltretutto suonati anche dai Beatles, sono infatti rintracciabili nel loro “Live At The BBC”. Si tratta della ballad “I Just Don’t Understand” e della vivace, ballabile “Some Other Guy”, in origine di Richie Barrett. Anche l’originale “The Whole Idea Of You”, è permeato dalle stesse atmosfere, col controcanto di Marcel Smith e Dennis Dove, mentre “Burial Season” (già su un disco di Sugar Ray & The Bluenotes) chiude su toni più gravi e scuri un lavoro tra le cose migliori del Welch solista.
Matteo Bossi










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