Scrivendone la biografia “Blowin’ Like Hell”, Paul Barry, un suo amico, nonché armonicista blues del Minnesota con diversi album al suo attivo, rende un sentito omaggio a William Clarke (1951-1996), uno degli armonicisti più emblematici della West Coast e dei club del ghetto della zona centro meridionale di Los Angeles. L’autore aiuta dunque  Jeanette (la vedova di Clarke) a mantenere la sua promessa di continuare a valorizzare l’eredita musicale del marito. Musicista, cantante, autore/compositore, produttore, Clarke se ne è andato troppo presto, a soli 45 anni, segnato da un alcolismo cronico devastante. Ha lasciato ai posteri, certamente, un’opera incompleta ma anche, e soprattutto, numerosi album di buonissima fattura. Si riconosceva immediatamente per la corporatura imponente, il colletto blu e i capelli gellati, con gli occhiali scuri per nascondere la timidezza. Adepto di un Chicago blues che sapeva fondere con lo swing e il groove jazzato della West coast, Clarke aveva saputo costruire una reputazione lusinghiera  e si era guadagnato molti fan in tutto il mondo. Paul Barry ha trascorso molto tempo con lui per tirarne fuori il ritratto più affidabile possibile. L’idea originaria era quella di scrivere insieme un metodo di armonica blues. Ma i demoni ricorrenti  di Clarke hanno deciso altrimenti. Barry ha cambiato idea, optando per una biografia che ricordasse al mondo il suo eccezionale lascito.

Clarke era autodidatta, doveva il suo amore per la musica alla madre che amava danzare ascoltando i dischi delle big band di jazz. Bill si avvicina al blues a partire dai brani che ascolta sulle stazioni radio dell’area di Los Angeles, in un momento in cui Junior Wells e Big Walter Horton facevano faville grazie al loro talento. Ma ascoltava anche i gruppi del British blues, in particolare i Rolling Stones. Verso la fine degli anni Sessanta comincia ad avventurarsi sulle scene di L.A. e dintorni in qualità di armonicista. In quell’epoca la metropoli situata nella California meridionale era piena di grandi musicisti blues, quali Pee Wee Crayton, Big Joe Turner, Eddie Cleanhead Vinson, Big Mama Thornton o T- Bone Walker. A diciotto anni, Clarke guadagna due dollari a sera suonando con artisti come Iron Board Sam e tra un set e l’altro incontra Rod Piazza e Doug MacLeod. Tre musicisti hanno contribuito in particolare a modellare l’universo musicale di Clarke, il chitarrista Smokey Wilson e Shakey Jake Harris sono stati riferimenti eccellenti,  tuttavia il suo mentore è stato l’immenso George Smith, insegnando al giovane musicista non soltanto a suonare ma anche ad intrattenere il pubblico, una lezione che Clarke farà propria suonando nei club del ghetto. Wilson e Harris erano proprietari dei club che Clarke frequentava, come il Pioneer Club nel quartiere di Watts, era diretto dal primo. Smith era un maestro dell’armonica cromatica e sotto la sua guida Clarke diviene il portabandiera dello stile “full throttle” come testimoniato dallo strumentale “Chromatic Jump”, un momento forte dei suoi concerti.

Sposato con Jeanette Pulcini, la sua ragazza dai tempi del liceo, e con figli da crescere, Clarke lavora di giorno come macchinista e suona la sera nei club. Nel 1978 registra l’album “Hittin’ Heavy”, con la canzone eponima. Nel 1987 decide di dedicarsi a tempo pieno alla musica. Clarke scriveva canzoni originali, creative, e sapeva mettere insieme gruppi di valore che apportavano molto alla sua musica. Sostenuta da chitarristi come Junior Watson, Alex Schultz, Zach Zunis e Rick Holmstrom, la sua musica non lascia certo indifferenti. Ha al suo attivo diversi dischi autoprodotti per piccole etichette (Watcy Dog, Good Time…). Due anni prima, nel 1985, registra “Tip Of The Top”, un album intenso e solido dove ritroviamo un bell’omaggio al suo mentore, George “Harmonica” Smith, (“Tribute To George Smith”), la superba “Blowin’ The Family Jewels”, “Chromatic Jump” catturata durante una battaglia di armoniche ed anche “Going Steady” e l’avvincente “Hard Times”. “Tip Of The Top” riscuote un certo successo e consente alla carriera di Clarke di decollare. Fino ad allora era conosciuto soltanto nella cerchia degli appassionati blues più stretta, ma a quel punto firma per l’Alligator di Bruce Iglauer che accetta, cosa allora eccezionale, che sia il primo artista dell’etichetta a registrare e mixare da sé i propri dischi. Nell’album “Blowin’ Like Hell” (Alligator) registrato nel 1990, Bill è produttore di sé stesso, affiancato da notevoli sidemen: Alex Schultz e Zach Zunis (chitarre), Fred Kaplan (tastiere), Willie Brinlee (basso), Eddie Clark (batteria) e su alcuni brani da una sezione fiati (Johnny Viau, John Marotti). Composizioni concise ed ispirate, un brillante stile all’armonica, un programma ben costruito e ben prodotto. Un ottimo album di armonica blues, punteggiato da momenti da ricordare, “Lillipop Mama”, Gambling For My Bread”, “Cash Money”, “Blowin’ Like Hell” e due rimarchevoli brani jazzati, “Greasy Gravy” e “Must Be Jelly”. Come armonicista Bill si impone accanto a nomi come Rod Piazza o Charlie Musselwhite tra gli stilisti blues più influenti della West coast. Purtroppo, anni di lunghe nottate, una vita difficile e un eccesso di alcol hanno la meglio su di lui. Nel combattere una infezione ad una gamba associata ad un anticoagulante, Clarke sviluppa un’ulcera emorragica. Il suo corpo non reggeva più. Si è spento all’età di 45 anni, nel novembre del 1996, privando il mondo del blues di una delle sue stelle più luminose.

Barry ricostruisce magistralmente questa saga in ordine cronologico, combinando i commenti e i ricordi dei numerosi musicisti che hanno suonato con lui, oltre a quelli di Jeanette e dei loro due figli. Il lavoro include anche molte foto che coprono tutta la vita di Clarke, accompagnate spesso da note esplicative. Ci sono le testimonianze di armonicisti come Jason Ricci, Dennis Gruenling, Ronnie  Shellist e Adam Gussow, oltre all’autore stesso, sull’impatto e l’influenza duratura di Clarke. Una discografia di due pagine presenta tutte le registrazioni alle quali ha partecipato, comprese le numerose uscite postume su etichetta Watch Dog, utilizzate da Jeanette per far sì che ci si ricordi di William Clarke. Lungo quest’opera di 141 pagine Paul Barry ha saputo trasmettere la dimensione senza tempo di quest’artista eccezionale, appassionato, perfezionista e terribilmente umano. Urge dunque riscoprire questa scena della California meridionale ricca di talenti di origine texana o transfughi dalla windy city.  Il libro è disponibile qui: www.paulbarryblues.com

Philippe Prétet

 


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