Ha saputo trovare la sua strada, Cedric Burnside, al contempo innovatore e portavoce di una tradizione che non si estingue, ma si mantiene entro i confini permeabili delle sue Hill Country, dove l’eredità degli ultimi bluesmen come suo nonno RL Burnside, nelle famiglie di Junior Kimbrough e Otha Turner, si manifesta in un linguaggio in cerca di evoluzione, teso tra passato e presente. Una responsabilità che sta a loro accettare, o lasciando che quella formula di blues resti (per dirla alla Leroy Jones – Amiri Baraka) “manufatto” riproducibile come linguaggio esotico e lontano, o si trasformi nei tempi, come ogni lingua degna di questo nome. Uno sviluppo non facile da gestire, ma altrettanto naturale com’è vero che i figli crescano nonostante i genitori: in bene e a volte, anche in male. Cedric dal canto suo non lascia solo il verbo di “Big Daddy”, ma si mette allo strumento e cerca di darvi seguito (non solo alla batteria, ma anche alla chitarra) con quel che la sua produzione recente pare rendergli merito, in ciò che poco più di un decennio ritrova nei suoi dischi: l’ultimo dei quali, “I Be Trying”, 2021, vincitore di un Grammy come miglior album di Blues tradizionale; e così anche “Benton County Relic”, del 2018.

Non era un caso che persino il conduttore televisivo britannico Michael Portillo, in una delle stagioni del suo celebre documentario BBC “Great American Railroad Journeys” (“Prossima fermata, America” per l’edizione italiana) parlando di Memphis come città del Blues capitasse guarda caso agli studi Sun, dove incontrava proprio Cedric a raccontargli di questa musica. Qualcosa che la dice lunga sul ruolo della sua figura oggi, quand’anche non sempre da neri si accetti di buon grado il legame col blues. Burnside – nipote lo trasforma in quel che ci sembra il gergo più autentico per quel che potrebbe essere ai nostri giorni, fuori da schematismi commerciali divenuti ormai dei “brands” come il Chicago Blues, ma addirittura lo stesso Hill Country Blues mutuato in formule low-fi così tanto di moda. La sua invece ne è piuttosto la naturale conseguenza, già protrattasi in maniera molto personale fino al disco precedente di cui questo pare una prosecuzione, modesto spin-off che aggancia i suoi giri sghembi e li rievoca in quattordici tracce essenziali (armonica-chitarra-batteria) a confermarne l’attuale identità di quel blues: una specie protetta che non si è voluta perdere, forte dei legami familiari che ne hanno mantenuto la tradizione, pur con quelle commistioni che hanno varcato i confini delle Mississippi hills senza intaccarlo più di tanto.

Cedric ama quel linguaggio, lo dichiara in “Hill Country Love”, pure title-track; usa quel linguaggio per raccontare, come raccontavano i vecchi: così “Juke Joint”, “Coming Real To You” o la dura “Toll On Your Life”; prega nella pulsante “Closer”. E dove non lo fa in modo personale, rievoca ancora una volta quel che lo lega indissolubilmente agli avi, riproponendoci ancora “Shake Em On Down”o “Po’ Black Mattie”; in mezzo la “You Got To Move” di Fred McDowell, com’era uso fare RL sotto il porticato ad una pausa dal trattore. Tracce immortali, certo, ma scelta discutibile quella di riproporcele ancora una volta in un disco. Intendiamocele allora come delle “bonus”: con o senza di esse, “Hill Country Love” (Mascot/Provogue) è un’appassionata dichiarazione d’amore per le proprie origini, non “immortalate” ma “vive” per quel che sono oggi.

Matteo Fratti         

 

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