jontavious willis west georgia blues

Terzo album per Jontavious Willis, artista georgiano che seguiamo dai suoi inizi, ricordiamo infatti il suo esordio “Blue Metamorphosis” (Il Blues n. 138), l’articolo che gli aveva dedicato la compianta Francesca Mereu sul n.141. O ancora l’intervista raccolta dall’amico Philippe Prétet lo scorso anno a Lione in cui Willis preannunciava il nuovo lavoro, uscito effettivamente a metà di questo mese di agosto. E “West Georgia Blues” è senz’altro il suo album più maturo, anche perché dal precedente sono trascorsi ben cinque anni. L’album contiene quindici brani tutti di sua composizione, suonati sia da solo che con un piccolo gruppo di amici quali Jayy Hopp (batteria, chitarra acustica, voce), Rodrigo Mantovani (basso acustico), Ethan Leinwand (piano acustico e wurlitzer).

Intanto è un disco di blues, senza mezzi termini, nelle sue varie forme, ma la scelta di campo operata da Jontavious è evidente, esplicitata nei versi della canzone titolo, “West Georgia Blues”.  Posta in apertura, cantata a capella col solo battito delle mani da lui e i suoi soci, c’è un verso come “we sing these blues just to carry tradition on”. Quasi una dichiarazione programmatica.  Ed è anche una sorta di inno al suo stato natale, la Georgia appunto, verso il confine con l’Alabama, considerato anche che il disco è registrato ai Capricorn Studios di Macon con l’aiuto di Jon Atkinson ed esce per l’etichetta Strolling Bones, che ha sede ad Athens, Georgia.

Un radicamento alla tradizione che il ventottenne Willis sente molto e tiene a rivendicare. Non cerca di far piacere la sua musica con chissà quali accorgimenti, ma anzi esalta la modernità del passato, senza che questo sembri un paradosso. La passione per questa musica, le sue storie e implicazioni culturali, si traducono in una proposta che fa tesoro dello studio e lo integra con la sua personalità. Prendiamo un brano come “Rough Time Blues”, un country blues con impeccabile fingerpicking di Willis, aiutato dal solo Hopp o una pregnante “Broken Hearted Blues”, che potrebbe tranquillamente appartenere a bluesmen di ormai un secolo addietro. Avremmo potuto scegliere altri brani come esempio tanto il lavoro scorre bene e, beninteso, il tutto non ha nulla dell’esercizio di stile.

Una folk ballad come “Ghost Woman”, con il solo Jontavious all’acustica e poche note di contrabbasso, mostra un altro lato della sua musicalità.Ci sono un paio di momenti più lievi, come “Keep Your Worries To The Dance Floor”, fedele al titolo e con un rimando, forse, a certe cose del Taj Mahal più solare.  “A Lift Is All I Need”, di cui in rete si trova anche un buffo video con disegni animati, ha atmosfere anni Cinquanta, vagamente ispirate ad Amos Milburn, con Jontavious solo al canto ben accompagnato dalla band, si segnala soprattutto il piano di Leinwand. Alcuni brani lo vedono, felicemente, alla guida di un piccolo combo in elettrico, la splendida“Lost Ball” fa rivivere i suoni ruvidi della Chicago anni Cinquanta o il conclusivo strumentale, “Jontavious West Georgia Grind”,  adatto per far muovere gli ascoltatori. Oppure in acustico, vedasi “Squirrlin’ Mama” con un testo spiritoso, un altro aspetto che Willis dimostra di padroneggiare.  Davvero un bel disco di un artista, nemmeno trentenne, già tra i più ferventi, credibili alfieri del blues tradizionale, negli anni Venti del XXI secolo. Va da sé che meriti un attento ascolto e tutta la nostra considerazione.

Matteo Bossi


leggi l’intervista: https://www.ilblues.org/jontavious-willis-intervista-2/

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