Era il 1993, il Chicago Blues Festival si teneva proprio a cavallo del mio compleanno, per cui mio padre e mia madre decisero che come “regalo”, ce ne saremmo tutti e tre andati negli USA proprio a Chicago. Allora c’era un volo diretto da Milano, e ricordo ancora che grazie all’amico Gianfranco Skala riuscimmo ad avere un upgrade in business, dopotutto era la prima volta che mia madre Luciana prendeva l’aereo per un volo intercontinentale. Inutile raccontare le diverse emozioni di quei giorni, che si possono rileggere in un mio (acerbo) scritto di oltre trent’anni fa su Il Blues n.44. Ma una delle emozioni più grandi, assieme all’essere invitato a casa di Fernando Jones a conoscere la sua famiglia per un tipico BBQ (era la prima volta che assaggiavo una patata dolce, detta allora patata “americana”, cotta al forno e così buona), è stato l’essere invitato alla serata inaugurazione della Blues Heaven Foundation dedicata a Willie Dixon, che era scomparso l’anno precedente, presso i famosi Chess Studios, al 2120 di South Michigan Av. All’ingresso uno dei figli di Willie, tale Butch, con tanto di manette appese alla cintura, faceva la selezione con i suoi (probabilmente) 120 kg per forse 190 cm di altezza, e ci accolse con un burbero “Who are You?” difficile da fraintendere. Solo l’intervento dell’amico Fernando lo fece rasserenare ed entrammo tra i pochi bianchi presenti (ed unici se non ricordo male Europei ed Italiani) ad un party come si deve, perché gli afroamericani sanno fare festa quando è il momento giusto. Koko Taylor era una delle ospiti e si stava scatenando al canto, con la sua possente voce, con uno spettacolo per pochi amici, così diverso da quello che lei e tanti altri portavano in Europa per un pubblico di bianchi. Rimasi senza parole. E il disco “Crown Jewels” che raccoglie ovviamente i pezzi che hanno reso famosa una delle regine del blues, testimonia se ancora ce ne fosse bisogno, che tutta la musica che ascoltiamo oggi deve molto al passato. Dal ritmo sinuoso di “Ernestine”, fino a “Hey Bartender” resa ancor più famosa dalla versione dei Blues Brothers, dall’immancabile “Wang Dang Doodle” o “Let The Good Times Roll” fino a “Mother Nature”, passando per l’incredibile “Voodoo Woman” e la toccante “I’d Rather Go Blind”, per esplorare tutti i colori della capacità espressiva di un’artista unica, che dal vivo, a Chicago nel 1993, lo posso confermare, emanava un magnetismo quasi animalesco, costringendoci ad un approccio riverente. Avevo solo 23 anni, ma quell’esperienza non la dimenticherò facilmente. Ancora oggi quando faccio lunghi viaggi da solo in auto mi piace ascoltare musica che mi dia la carica e mi faccia sentire bene, e se sono in moto mi ritrovo a sorridere e a canticchiare questo o quel brano che, volente o nolente, mi è entrato sotto la pelle grazie agli stimoli musicali di mio padre Marino e a quello che ho direttamente indirettamente ascoltato. Tutto ciò spesso riesce a farmi gioire del semplice istante che sto vivendo… Non ci sono ringraziamenti adeguati per questo!

 

Davide Grandi

 


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