Matt Pascale & The Stomps - Home cover album

C’è un’iconografia di copertina i cui innesti estetici potrebbero tradire, nel gioco da star che Matt Pascale e i suoi Stomps mettono in scena nella Los Angeles del loro debutto.

Ma non è un caso che lì si trovino a “casa” (“Home”, appunto) e a bisticciare con le parole, in effetti, vien da dir che debuttare nella Città degli Angeli non sia affatto roba … “da debuttanti”! Ma il rock’n’roll è fatto della magnificenza che ci porta in alto, a redimerci dal fango dove ci s’è trovati prima di risorger dalle nostre ceneri.

Quelle in copertina al loro disco, paiono accendere d’un’ocra color Mojave reminiscenze bianconere, dove le scritte “Los Angeles Strange Theatre” sullo sfondo poi, emergono da quell’angolo di mente come un messaggio subliminale, a ricordarci persino qualche buon vecchio live, degli Allman o degli Skynyrd.

Suggestioni? Di certo, la band ci mette del suo nell’apparir piuttosto come un combo gangsta suburbano là davanti, che solo Matt Pascale sembra venuto fuori dai Settanta e pure noi, che l’avevamo visto suonar dal vivo un anno fa per sole poche canzoni, c’eravamo illusi della voce roca e la chitarra facile, come d’un southern – rocker italiano a ricalcar quegli anni.

C’è molto di più, invece, e altro ancora nella lezione degli Stomps (Matteo Magnaterra al basso ed Elia Squartini alla batteria, con Rishi Yildiz alle tastiere) come una summa di stili. A guardar bene, un raffinato amalgama, che non disdegna di mescolare il vintage colla modernità, il blues coll’elettronica.

Non é mai un’accozzaglia di generi, quanto piuttosto un solo ed unico sound, totalmente “in nero”: beninteso, funky-soul ed r’n’b, metropolitano e notturno losangelino. Solo così “buona copertina non mente” e la nostra disamina iconografica non cede a fascinazioni di sorta: i quattro pards piombati in America sono quel che sembrano e tirano fuori una personale mescola identitaria di chi ci ha visto lungo.

La Dixiefrog Records li spinge a completare “Home” nientemeno che laggiù e Fabrizio Grossi, già collaboratore con nomi come Billy Gibbons, Eric Gales o Supersonic Blues Machine, li produce per intero, seguendone con Matt la direzione artistica.

La strada intrapresa allora è quella della contaminazione urbana, meltin’pot di sonorità sofisticate ma mai artificiose, per un album già maturo, quantunque “agli inizi”, ma dal forte respiro internazionale. Qualcosa che suona molto americano, nell’accezione quanto più positiva si possa dare oggi a quest’aggettivo, certa musica a tener desto ancora il mito in cui abbiamo creduto.

Una dozzina di tracce, mai sporca né rabberciata, ma d’intensa limatura: lo sentiamo fin dall’inizio, apertura con la title – track e “scandalosamente” hip – hop nell’incipit; poi black – music e soul, e voce blues sugli scudi. Una bella dichiarazione d’intenti, che abbraccia la novità giacché lo stesso frontman imbracci una chitarra Yamaha Revstar a sfidare la tradizione, aprendosi agli orizzonti chitarristici di nuove promesse in campo, peraltro eccellenti (Chris Buck; Matteo Mancuso).

Da un titolo come “Fucked Up One Again” invece, ci aspettavamo tutt’altro che una soft – ballad, ma i giochi sono questi. Danza piuttosto “Lost & Found”, virando al groove delle attese; come anche “Mr No Money” o la rumoristica “Me and the Devil”. Difficile non trovare brani potenti, né mai semplici o scontati nella costruzione sonora, moderna e accattivante, mai derivativa. Spara così a zero, dura “Wake Up”, mentre ci saluta liquidamente “Why Don’t You Tell Me”.

Non vorremmo dimenticare nulla; vogliamo però sottolineare all’ascolto “Hide & Seek”, come pure al top (nell’appeal più tradizionalmente soul dei fiati) “Old Angels’s Talkin’”: vertici d’egregio risultato, ma altrettanto valide in un disco che lascia il segno.

Matteo Fratti 

 

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