Nat Myers - Yellow Peril recensione

Originario della contea di Kenton nel Kentucky con ascendenze coreane, Nat Myers coltiva la passione per la poesia e il blues prebellico, tanto da trasferirsi a New York per inseguire i suoi sogni. La pandemia ha posto un freno a tutto ciò e non gli è rimasto altro che suonare gli amati blues e caricare qualcuna di queste performance sulla rete.

Alcune di esse hanno catturato l’attenzione di Dan Auerbach che lo ha invitato da lui in Tennessee per conoscerlo e suonare. Da lì a decidere di offrirgli un contratto e produrgli un disco per la sua Easy Eye Sound il passo è stato breve. Va riconosciuto innanzitutto ad Auerbach il tentativo, tramite la sua etichetta, di valorizzare artisti al di fuori di qualsiasi criterio commerciale, pensiamo a Robert Finley, Jimmy “Duck” Holmes e ora al giovane Myers.

Auerbach gli ha fatto conoscere suoi amici e collaboratori regolari quali Pat McLaughlin (anni fa autore persino di due album su Appaloosa) e Alvin “Youngblood” Hart che hanno incoraggiato Myers e in qualche occasione lo hanno aiutato a completare la scrittura dei brani. Le registrazioni sono avvenute nel giro di tre giorni, non in studio ma nella casa dello stesso leader dei Black Keys nei dintorni di Nashville, piazzando qualche microfono al posto giusto.

Nat Myers – Yellow Peril

Le canzoni incluse sono dieci e portano tutte la sua firma e appunto quella di Auerbach, McLaughlin o Hart in qualche caso ma rimandano esplicitamente a modelli antichi. Pensiamo a Charley Patton, Blind Boy Fuller o Furry Lewis ma anche ad un nome per iniziati come Hogman Maxey (!), scoperto e registrato nel penitenziario di Angola, Louisiana nel 1959 da Harry Oster. Notevole qui  la sua riscrittura di “Duck’n’ Dodge”.

Myers è più che un bravo studente, a suo agio con la materia, cerca infatti di applicare la propria sensibilità ad essa, pensiamo alla canzone titolo, in cui ironizza sul “pericolo giallo” additato durante la pandemia verso gli asiatici in generale, con un incedere pattoniano, stavolta non in solitaria ma con i due soci di cui sopra, ad accentuarne la resa da string band. Pezzi brevi e fluidi, in cui appunto sembra chiamare a raccolta gli spiriti dei grandi del passato, in “Trixin’” evoca addirittura Eugene Powell (Sonny Boy Nelson). Mentre la conclusiva “Pray For Rain” diventa quasi una folk ballad corale che non sarebbe stato strano trovare nel repertorio dei Mississippi Sheiks.

L’ascolto di questo bel disco fa un effetto simile all’esordio, ormai quasi trent’anni fa, proprio di Hart, per la coerenza e la freschezza con cui Myers vivifica il country blues. Non sappiamo quali saranno i suoi prossimi passi, ma intanto consigliamo senza dubbio alcuno,“Yellow Peril”; una rivelazione inattesa.

Matteo Bossi

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