soundtracks

Ventuno edizioni non sono poche per qualsiasi manifestazione culturale, ancor di più per un festival che ruota attorno al blues. Specialmente in un contesto amministrativo, economico e sociale mutevole in cui garantire continuità e qualità diventa ogni anno una sfida. Anche perché una caratteristica distintiva del Soundtracks è sempre stato l’accesso gratuito, grazie ai Comuni aderenti e ad agli sponsor. Una sfida che la tenace Daniela Rossi porta avanti con coerenza, nella memoria del marito Luciano Oggioni, ideatore della rassegna, purtroppo scomparso nel 2023.

Tolo Marton foto Fabio Tosca

Perse ahimé le prime due serate, che hanno visto protagonisti Paolo Bonfanti e Boney Fields, eccoci in piazza Mazzini a San Giorgio su Legnano per il concerto di Tolo Marton. L’artista veneto ha una carriera lunga e variegata, pensiamo alle sue molteplici collaborazioni, sul palco o in studio, da Le Orme a Guido Toffoletti, le esperienze americane o quelle accanto a Jack Bruce, Ian Paice o il recentemente scomparso Bobby Whitlock, per non citarne che alcune. Questa sera è in trio e propone la sua musica tra rock e blues, guidata dalle escursioni della sua chitarra, tra blues, rock e territori limitrofi. “Time Is Tight” (Booker T), passando per i Cream di “Sunshine Of Your Love”, le volute di “Hey Joe” o un caposaldo del suo repertorio come “Alpine Valley”. La sua Stratocaster viaggia lungo sentieri personali, tra curve e salite con gradazioni variabili di ispirazione, lasciandosi guidare dall’istinto del momento in improvvisazioni subito assecondate dai suoi soci. Le note finali sono accompagnate da un acquazzone che si riversa sull’alto milanese e il pubblico corre al riparo.

Sacromud foto Fabio Tosca

La settimana seguente, per  il forte rischio pioggia, il concerto dei Sacromud viene spostato nell’auditorium della scuola di Canegrate. La formazione umbra, capitanata dall’ottimo Maurizio Pugno, vede per l’occasione suo figlio Leo Pugno, chitarrista molto promettente, Franz Piombino al basso e Alessio Lucaroni alla batteria. Alla voce Raffo Barbi, coinvolgente e teatrale nelle suo occupare lo spazio scenico, sempre in grado di legare i brani tra loro con le sue introduzioni evocative. La loro musica, come sa perfettamente chi li ha già apprezzati su disco o dal vivo, tiene insieme elementi differenti con grande efficacia, grazie ad una visione eclettica e inclusiva oltre ad uno sguardo sul reale profondamente umanista.

Lo sono anche in questa formazione in cui gli innesti del giovane Pugno, molto diretto e bravo quando viene chiamato in causa in alcuni assolo e di Lucaroni non fanno rimpiangere i titolari (Riccardo e Alex Fiorucci), nè si avverte particolarmente l’assenza della tastiera. Stasera il viaggio parte da “Carousel” e prosegue con “The Mule” e “Ordinary Day”. Basterebbe questo trittico a far capire la consistenza del loro impasto sonoro  fatto blues, soul, funk, gospel, rhythm and blues, maneggiati con grande sapienza. Overground blues, come dicono loro.  E poi c’è la grande interpretazione di “Ain’t No Love In The Heart Of The City” (Bobby Bland) in cui passato e futuro si toccano, le prioiezioni visive di “Holy Day” o quelle dense di “Exodus”.Molto bello il finale, una cavalcata su “The Same Love That Made Me Laugh” di Bill Withers, guardando anche alla versione di Robert Cray. Un concerto che ha messo d’accordo tutti, a testimonianza dei tanti appassionati corsi ad acquistare il loro ultimo, splendido Lp registrato alla Sun Records.

Nick Becattini Legacy foto Fabio Tosca

Lodevole l’idea di proporre una serata omaggio per Nick Becattini, a poco più di un anno dalla sua dipartita. Anche perché il compianto artista toscano aveva tenuto un concerto nel settembre del 2022 al Soundtracks, allora nell’auditorium del comune di Lainate. Il 26 settembre scorso eravamo a Nerviano per il concerto della Becattini Legacy Band, preceduto nel pomeriggio dalla presentazione del suo memoir “Catartico Blues” nella Biblioteca con la partecipazione di Silvano Brambilla e Giancarlo Trenti, Il gruppo comprendeva il suo fido hammondista Keki Andrei, Andrea Cozzani al basso, Guido Carli alla batteria e Cek Franceschetti, da sempre ammiratore del pistoiese,  chitarra e voce, oltre ad essere il fautore del titolo del suo ultimo album, “Crazy Legs”.

L’ensemble si muove bene nel repertorio di Becattini e Franceschetti ce la mette tutta per rendergli omaggio nel modo più sentito. Per chi come Keki Andrei e soci ha suonato questi pezzi con Nick innumerevoli volte  dev’essere effettivamente strano farlo senza di lui. Ci mettono rispetto e passione, inoltre Franceschetti si muove su un terreno chitarristico diverso e giustamente non cerca di replicare i passaggi solisti di Nick. Ci sono pezzi di cui era autore quali “Holy Tire” o Johnny The Gambler” ed altri di artisti che ammirava ed era solito eseguire dal vivo, come “Dreams To Remember” (Redding), “Big Legged Woman” (Freddie King). Chiudono con una cover di Bobby Bland, “Ain’t No Love In The Heart Of The City”, che Becattini aveva riarrangiato a suo modo, con ancora un gran lavorio di Andrei all’Hammond. Per citare Jim Dickinson anche per l’artista toscano si potrebbe ben dire, “I’m just dead, I’m not gone”.

L’ultima serata del festival si è tenuta in un luogo particolare, la Casa di Reclusione di Bollate, dove il festival aveva già fatto tappa dodici anni addietro. Un ritorno molto voluto da Daniela Rossi, segno tangibile dell’attenzione verso una realtà che è spesso rimossa dal nostro quotidiano e ritorna agli onori delle cronache quasi solo per circostanze drammatiche. E dunque la scelta di tenere qui il concerto di chiusura, aperto ad un piccolo numero di spettatori esterni, altrimenti riservato agli ospiti della struttura, è anche un modo per ricordare, senza addentrarci in considerazioni sociologiche, di come la musica e l’arte in generale siano fondamentali per restare umani.

Una constatazione che prende vita davanti ai nostri occhi quando iniziano a suonare i Seven Band, il gruppo formato da nove detenuti del settimo reparto, che propone un set introduttivo che passa dal Pino Daniele di “Je So’ Pazzo” allo Stevie Wonder di “Isn’t She Lovely”, alternando le voci guida, tra percussioni, tastiere, basso, chitarra, flauto di pan e cori. È palpabile l’impegno che hanno profuso nella preparazione della serata e a volte anche l’emozione di suonare dal vivo davanti ad un pubblico. Un repertorio non facile, comprendente classici dal canzoniere di Sting, “Englishmen In New York”, Otis Redding “(Sittin’ On) The Dock Of The Bay” e nientemeno che Van Morrison, “Moondance”. Chiudono con la celeberrima  “Imagine” il cui slancio utopistico assume, forse, un’altra valenza in una serata come questa.

Poi è il momento dei Superdownhome, il collaudato duo chitarre e batteria formato da Enrico Sauda e Beppe Facchetti, che in quasi dieci anni di attività (li festeggeranno l’anno prossimo), si sono fatti conoscere ed apprezzare anche fuori dagli italici confini. La loro musica si fonda sulla ruvida energia e sul ritmo, scandito dalla batteria e dalla chitarre di recupero di Sauda (cigar box e affini), guardando ad altri binomi simili che hanno fatto fortuna soprattutto oltreoceano. Anche quando rivisitano pagine classiche come “I’m Your Hoochie Coochie Man” (in uno dei loro dischi l’hanno incisa con l’armonica di Charlie Musselwhite) lo fanno sporcando il suono e accentuandone l’impeto ritmico. Raramente alzano il piede dall’acceleratore, inanellando cose come  “Nobody’s Twist”, “Shake Your Moneymaker” o il rock’n’roll di Lennon “New York City”, senza soluzioni di continuità, se non per confessare con candore la loro emozione nel suonare in questo luogo. E poi quasi senza accorgersene, la serata finisce e tutti si ritrovano sul palco per una “Sweet Home Chicago” collettiva e solidale, cantata dall’ospite Cek Franceschetti, presente in sala.

Matteo Bossi

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