Bluesville -Terza parte

di Matteo Bossi

Proseguiamo (qui la  prima e seconda  puntata)ad occuparci della serie di ristampe in vinile della Craft Recordings denominata Bluesville con tre uscite sul versante acustico, di artisti molto diversi tra loro per estrazione e proposta musicale. Sempre di alto livello il lavoro sul suono, di questi vinili da 180 grammi da parte della Acoustic Sounds, seppur i fortunati possessori degli originali possano di certo attestarne la qualità.  In primo luogo, abbiamo potuto riascoltare “Back On My Feet Again” di Walter Furry Lewis, uno dei musicisti più iconici di Memphis, la cui lunga attività, pur con un periodo di interruzione discografica, si è snodata in pratica fino alla sua dipartita nel 1981. Già le sue registrazioni del 1927/29 per Vocalion e poi Victor ne avevano decretato il talento e la reputazione, con versioni splendide di “Kassie Jones”  o “Judge Harsh Blues”.

Lewis sapeva combinare l’uso della slide ad un picking intricato, rielaborando brani della tradizione fino a renderli del tutto personali, talvolta improvvisando versi e dilatando le esecuzioni. Fu Sam Charters, autore/produttore/musicologo, nel 1959 a farlo incidere nuovamente, dapprima un album apparso su Folkways e due anni dopo questo e l’appena successivo “Done Changed My Mind”, su Prestige Bluesville che ne rilanciano definitivamente la carriera. Furry diventerà di grande ispirazione per una nuova generazione di musicisti, pensiamo a Jim Dickinson e i suoi amici Lee Baker e Sid Selvidge, ma anche a qualcuno come Charlie Musselwhite che sin da adolescente bazzicava Beale Street e veterani come lui, Will Shade  e Gus Cannon.

Per quanto riguarda la musica contenuta in quest’album non si può che concordare con quanto scrisse l’amico Gianfranco Scala sul lontano n.3 de Il Blues, recensendo questo album: “queste registrazioni ci presentano una musica genuina e vibrante, un album immancabile per gli amanti del country blues e della chitarra acustica in generale”.  Impagabile la sua versione di “John Henry” e molto personale la rilettura di “St. Louis Blues” o una “Shake ‘Em On Down” da mettere a confronto con quella di altri suoi illustri colleghi.

Anche la vicenda artistica di  Pink Anderson, vero nome Pinkney,  nativo del South Carolina, cresciuto tra Greenville e Spartanburg, ha qualche analogia con quella di Lewis. Nel suo caso le registrazioni prebelliche, risalenti al 1928 in coppia con Simmie Dooley, si contano però sulle dita di una mano e per il proseguo dell’attività discografica dovrà attendere molto, in pratica fino agli anni Cinquanta, quando incide metà di un LP su Riverside (l’altra era affidata al Rev. Gary Davis).

La realizzazione di “Carolina Blues Man Vol. 1”, seguita da altri due capitoli sulla stessa Prestige Bluesville, si deve ancora a Sam Charters, che aveva ben compreso la singolarità del suo approccio alla musica. Anderson aveva uno stile debitore in parte verso i dischi che aveva ascoltato, in primis Blind Boy Fuller, stemperato da un fingerpicking solido e secco e un cantato intriso di trattenuta malinconia, evidente in “Weepin’ Willow Blues” o “I Had My Fun” (una interpretazione di “Going Down Slow”) o in una “Meet Me In The Bottom” particolarmente ispirata.

Al proposito è utile riportare quanto aveva scritto, sul n. 9 de Il Blues, Marino Grandi all’interno di un articolo dedicato proprio ad alcune uscite Bluesville, relativamente a questo lavoro: “come sintetizzare in un solo album che cosa significhi essere stati per tutta la vita un artista al seguito dei medicine show. Voce roca e spezzata, un chitarrismo energetico sono il supporto indispensabile a questo straordinario personaggio per illustrare le canzoni tradizionali […]”. L’eredità musicale di Anderson, scomparso nel 1974, viene raccolta, in età adulta, dal figlio Alvin “Little Pink” Anderson, autore di lavoro edito dalla Music Maker Relief Foundation nel 2002.

pink anderson

Il terzo album di questa tornata è “The New Folk Sound Of Terry Callier” in una nuova edizione in LP, l’esordio per il compianto artista di Chicago, spentosi purtroppo nel 2012. Un lavoro di grande bellezza e nitore, registrato nel 1964 da un Callier nemmeno ventenne per Prestige con la produzione anche stavolta di  Sam Charters, tuttavia uscito solo alcuni anni dopo, dato che questi se ne era andato in Messico con i master delle incisioni.

Artista singolare, la cui musica sapeva combinare, secondo una ricetta solo sua, elementi di folk, soul, jazz, blues e cantautorato nero, aiutato da una voce calda ed espressiva, in questa fase giovanile molto vicina a quella di Nina Simone. E questo disco lo vedeva accompagnato solo dalla sua chitarra acustica e da due contrabbassisti, Terbour Attenborough e John Tweedle e nessun altro strumentista. Un’intuizione che gli venne nientedimeno che dall’ascolto di John Coltrane.

Ma tanto gli era bastato per dare vita ad una musica tersa, persino austera nella sua semplicità, almeno rispetto ai suoi dischi successivi su Cadet (sussidiaria Chess) o Elektra.   Terry canta questo materiale in larga parte tradizionale come lo avesse composto lui, riuscendo in qualche modo a creare un effetto di galleggiamento nell’aria.  Non resta che mettere il vinile sul piatto e ascoltare in silenzio le prime note di “900 Miles” per lasciarsi avvolgere da una musica flessuosa, insieme antica e senza tempo, eppur forse fuori sincrono col proprio, visto che alla sua uscita non trovò una sua collocazione.

In ogni caso si arriva senza accorgersene alla lunghe meditazioni di “I’m A Drifter”, una ripresa di un pezzo del folksinger Travis Edmonson posta in conclusione. Lo si fa passando per “Cotton Eye Joe”, una suggestiva “Promenade In Green” o i cambiamenti ritmici di “Spin, Spin, Spin”. Un’’ulteriore occasione di apprezzare un gran disco, di cui nel 2018 era stata pubblicata un’edizione espansa di  da parte della stessa Craft Recordings, con alcuni bonus e alternate take inedite.  Ricordiamo infine che, nel 2017, la città di Chicago lo ha ricordato intitolando un tratto di West Elm Street,  Terrence Callier Honorary Way.

terry callier

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