billy branch

Nel corso di una carriera ormai cinquantennale Billy Branch ha alternato sovente le sue produzioni soliste, a dire il vero con una frequenza non troppo ravvicinata, ad una miriade di collaborazioni con altri colleghi, sul palco o in studio. Di conseguenza la sua musica ha trovato posto su molte etichette differenti, solo per fare una lista parziale lo ricordiamo su Alligator, L+R, GBW, Verve/Gitanes, Telarc, Delmark, P-Vine, Blind Pig…Ad esse si aggiunge ora una neonata label, Rosa’s Lounge Records, strettamente collegata al celebre locale di Chicago fondato da Tony Mangiullo nel 1984; lui che era partito dall’Italia a fine anni Settanta con il numero di Junior Wells in tasca e poco altro.

E la presenza di Billy come alfiere inaugurale acquista un senso ulteriore, avendo suonato all’apertura del club, ormai decenni orsono e oltretutto anche il nome di sua moglie è Rosa. Sembra dunque che le cose non succedano per caso e allo stesso tempo di trovarsi di fronte alla chiusura di un cerchio e all’apertura di uno nuovo. Come ci ha detto lui stesso nel corso dell’intervista, si tratta probabilmente del suo album più personale e ambizioso, non un’iperbole promozionale ma una sensazione effettiva dopo averlo ascoltato.

C’è molto di suo, una combinazione di storia personale e sociale, devozione al blues e ironia, uno sguardo che potemmo definire in egual misura empatico e disincantato verso la realtà che lo circonda. Ci sono i suoi fedeli Sons Of Blues con lui, Giles Corey (chitarra) e il tastierista Sumito Ariyoshi, per tutti Ariyo, Ari Seder e Dionte Skinner come sezione ritmica, ma in alcuni brani anche i fiati, arrangiati dal produttore Larry Batiste. È il caso del brano d’apertura, l’uptempo “Hole In Your Soul”, in coppia con l’immarcescibile Bobby Rush, un invito ad apprezzare il blues, almeno tanto quanto altre musiche dal riconoscimento mainstream molto più vasto.

“Beggin’ For Change” è un ritratto amaro dell’America di oggi, ma il discorso vale anche altrove, in tempi di forti disuguaglianze, contrapposizioni e violenze, in cui gli danno una mano la sempre brava Shemekia Copeland, che ci ha abituato ad affrontare tematiche simili nei suoi lavori, e Ronnie Baker Brooks. “How You Living”, un talking costruito su una serie di interrogativi aperti e un inserto rap, vuole provare a risvegliare le coscienze adoperando una chiave diversa.

Una delle rare cover del disco è “Dead End Street”, un R&B inciso nel 1967 da Lou Rawls, personalizzata da Branch con suoi particolari biografici nel parlato iniziale, con ancora buonissimi interventi dei fiati. “The Harmonica Man” suona quasi come un biglietto da visita, “I pull up my harp and you hear me play sweet melodies to brighten up your day”, canta lui, con  un richiamo ai grandi del passato. La canzone titolo invece è una ballata dalle atmosfere quasi Cinquanta, meditativa, rivolta più alla condizione umana generale che a sé stesso, “the whole world got the blues” constata.

E poi non mancano nemmeno argomenti classici come gli amori complicati, lo slow “Toxic Love”, con bei passaggi dell’armonica e “Call Your Bluff”, vanno in questa direzione. Inutile ribadirne le (grandi) doti di strumentista, meglio sottolineare la gravitas e la forza tranquilla della voce, assieme alla scrittura tra i punti cardine di un disco senza dubbio tra i suoi più riusciti.

Matteo Bossi

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