The Harmonica Man
di Matteo Bossi
Abbiamo raggiunto Billy Branch a pochi giorni dal secondo memorial per Marino Grandi, tenutosi al Black Inside di Lonate Ceppino e inevitabilmente, vista la lunga amicizia che li legava, le prime parole della nostra conversazione sono rivolte a lui. “Marino era così una bella persona e so che mama Luciana e Davide sentono ancora molto la sua perdita. Ogni volta che venivo in Italia non vedevo l’ora di incontrarli e di solito si presentavano con una bottiglia di grappa!”. Gli ricordiamo dell’ultimo incontro, avvenuto nel 2019 alle Milano Blues Session, pochi mesi prima dell’uscita del suo album precedente, “Roots And Branches-The Songs Of Little Walter” (Alligator). Ora invece ha un nuovo lavoro, dal titolo appropriato di “Blues Is My Biography”, che segna il debutto di una nuova etichetta, Rosa’s Lounge Records, emanazione dell’omonimo blues club di Chicago.
Come mai ti ci sono voluti sei anni per pubblicare un nuovo disco?
Beh, volevo fosse buono! Sono soddisfatto della mia produzione discografica, non ho mai fatto uscire qualcosa che non mi piacesse. Penso che tutto quel che ho pubblicato abbia una certa integrità e qualità…non ho rimpianti per nessuno di essi, a parte forse qualche assolo per cui ho pensato-oh avrei dovuto farlo diversamente-ma al di là di questo sono contento della mia storia discografica. Sento che questo è il mio album più ambizioso e per alcune ragioni. In primo luogo, in pratica ho scritto ho co-scritto tutte le canzoni, nove su undici. “Beggin’ For Change” l’ho scritta con Ronnie Brooks e con mia moglie Rosa abbiamo scritto “Toxic Love”, mentre il mio ex batterista, Blaze Thomas, ha composto “Call Your Bluff”. L’unica cover è il pezzo di Lou Rawls, “Dead End Street”, per cui ho comunque riscritto il monologo in modo che riflettesse la mia biografia.
Hai una lunga storia con il Rosa’s di Tony Mangiullo, perciò aveva senso fossi tu il primo artista della label.
Si, giusto, abbiamo suonato all’inaugurazione del Rosa’s Lounge quarantadue anni fa, sembra difficile da credere, quarantadue anni, roba da matti! Hanno dato vita all’etichetta qualche anno fa ma la pandemia li ha rallentati, ci è stata offerta questa opportunità e data la nostra storia col Rosa’s l’abbiamo colta. È un rischio, nel senso che è una cosa nuova e non collaudata, ma ci sono alcuni aspetti che abbiamo apprezzato. Abbiamo molta voce in capitolo nei processi decisionali, cosa decisamente insolita per una etichetta. E poi non è un contratto di venti pagine, è piuttosto diretto e inoltre abbiamo una piccola quota dell’etichetta stessa.
Come hai lavorato alle registrazioni? Sono state fatte tra Chicago e la West Coast?
Sì, a Chicago e Oakland. Con il mio produttore, Larry Batiste, ci siamo conosciuti a Memphis ai BMA della Blues Foundation e abbiamo iniziato a parlare. Gli ho detto che ero in procinto di produrre un nuovo album e dopo averne discusso è venuto fuori che eravamo un binomio perfetto. Abbiamo lo stesso modo di pensare. Lui viene da un ambito R&B/Soul/Funk, in origine suonava uno strumento a fiato, viene dagli anni Settanta e Ottanta, in cui c’erano gruppi i Gap Band…ed è anche un ottimo cantante. I miei gusti musicali non hanno limiti, la buona musica è buona musica, opera, classica, country, hip-hop, folk o jazz…da giovane ho assorbito la musica che passava alla radio, ed allora si trattava di Motown, Beatles, Stones, Hendrix, Beach Boys, Peter Paul & Mary…si ascoltava di tutto alla radio all’epoca e non avevo barriere relativamente a quel che volevo esprimere. E in quest’album ci puoi sentire elementi differenti, riff jazz, un tocco R&B e la canzone “How You Livin?” la si potrebbe forse descrivere come hip-hop blues, mentre “Ballad Of A Million Men” ha un accenno reggae. Sono in grado di affrontare questi stili diversi con l’armonica, trovandomi a mio agio, grazie alle solide basi che ho avuto dai miei maestri e mentori, soprattutto Big Walter Horton, James Cotton, Carey Bell e Junior Wells. E tramite l’ascolto ho studiato gli stili di Little Walter, Sonny Boy e altri.
Con Cotton, Carey Bell e Junior Wells realizzasti “Harp Attack” nel 1990.
Sì, il tempo vola. E purtroppo non ci sono più.
Un altro dei tuoi mentori è stato il poeta e scrittore Sterling Plumpp, ha influenzato anche il tuo modo di scrivere canzoni?
Oh, in questo caso è stato piuttosto il contrario. Sai sono stato un suo studente alla University Of Illinois. Sterling è originario del Mississippi, un suo zio gestiva un blues club a Chicago in cui era solito suonare Howlin’ Wolf. Non ricordo il nome. Io e Sterling siamo diventati amici dopo un compito che aveva assegnato relativo ad un racconto, A Summer Tradgedy, di Arna Bontemps, uno degli obiettivi del saggio che dovevamo scrivere era mettere in relazione il racconto e la storia del blues. Niente di meglio per me. Tanto che la volta successiva ha letto il mio componimento a tutta la classe, dicendo questo tipo, Billy Branch, capisce davvero il blues. Così ho alzato la mano e ho detto – mi scusi, signore, ma io il blues lo suono-Mi guardò totalmente incredulo. Appunto perché lui è del Mississippi ed è cresciuto con blues e jazz. Quando lui racconta questa storia dice sempre che io sembravo Barack Obama da giovane e dunque era impossibile che un ragazzo così di diciotto o diciannove anni sapesse suonare il blues. Comunque disse-ah si e cosa suoni? – L’armonica-risposi io. – Potresti portare in classe la tua armonica? Così feci e suonai per la classe. Lui era stupefatto. La nostra amicizia è iniziata così. Quando i Sons Of Blues suonavano a Chicago sette sere su sette, potevi vedere Sterling li seduto con carta e penna che prendeva appunti…Io gli davo consigli su come scrivere un blues di forma standard, con rima AAB. Era una collaborazione e tuttora è uno dei miei più cari amici, ha ottantacinque anni. Devo andare a trovarlo di nuovo prossimamente, l’ultima volta ci siamo visti un mese fa.
Avete scritto insieme la canzone “Sons Of Blues”.
Sì e l’ho registrata due volte, la prima su “Where’s My Money?” e la seconda su “Blues Shocks”, dove avevamo anche i fiati e l’abbiamo resa un po’ più funky.
Tornando al disco, un pezzo come “Beggin’ For Change” parla da solo. Ci sono anche Ronnie Brooks e Shemekia Copeland qui con te.
Beh, è un brano di commento sociale, ne avevo una bozza da quattro o cinque anni e poi dato che io e Ronnie siamo molto legati, è come un fratello minore, gliene ho parlato e ci abbiamo lavorato insieme. Ronnie è trovato un arrangiamento molto bello ed ha anche aggiunto dei versi. L’abbiamo in pratica scritta insieme. Io e Shemekia avevamo parlato di fare qualcosa insieme e quando le ho chiesto se potesse partecipare a questo brano ha accettato subito. E penso che abbia funzionato benissimo. A sua volta ha inciso alcuni pezzi di commento sociale sui suoi dischi, il suo manager John Hahn scrive molto del suo materiale.
Alcuni anni fa hai scritto “The Ballad Of George Floyd” con Dave Specter.
Esatto, vedi, è una grossa questione per la gente di colore in questo paese e non solo, ogni giorno. Si potrebbe pensare che nel 2025 tutti siano in grado di accettare gli altri per quello che sono ma purtroppo la tendenza va nella direzione opposta. “Beggin’ For Change” pensiamo possa diventare quasi un inno globale, perché ovviamente si possono vedere alcune delle cose disastrose che si vengono fuori dagli Stati Uniti, ma non riguarda solo qui, so che anche in Italia ci sono problemi simili. Su quest’album ci sono in realtà quattro canzoni di commento sociale, anche “Blues Is My Biography” lo è.
E su “Hole In You Soul” hai ospite Bobby Rush, uno dei grandi veterani rimasti della sua generazione.
Sì, Buddy Guy, Bobby, Bob Stroger…ho avuto un bel rapporto con lui negli anni, si ricorda di quando sono arrivato sulla scena. Gli ho chiesto se sarebbe stato così gentile da prestare il suo formidabile talento per il mio album e senza esitare ha detto -certamente, dimmi solo dove e quando devo essere-. Non ha chiesto quanto pagassi, lo ha fatto come favore e così gli altri. E ha fatto un gran lavoro, ne sono molto contento, è divertente quel che dice nell’intro: “the blues is the mother of american music, and if you don’t like the blues you probably don’t love your mama” Classic Bobby Rush!
Qualche settimana fa, intervistando Jimmy Burns, raccontava di come vedere te e Lurrie suonare a fine anni Settanta lo abbia ispirato a suonare blues.
Oh, sai è una cosa molto insolita e Jimmy l’ha raccontata più volte negli anni. Sono ancora impegnato con Blues In The Schools, anche ora sto portando avanti un programma, ma appunto sono i vecchi che insegnano ai giovani solitamente. In questo caso però, era la prima volta in cui i Sons Of Blues venivano pagati per andare al Berlin Jazz Festival e se a qualcuno può interessare il concerto è visibile su Youtube. Abbiamo suonato “Teard Down The Berlin Wall”, che era su “Living Chicago Blues Vol 3” (Alligator) e ottenne la nomination al Grammy. Prima di andare a Berlino provavamo, suonando cioè nei club come il Theresa’s o il Checkerboard. E la carriera di Jimmy era stata nell’R&B, anche se certo conosceva il blues, veniva dal Mississippi e suo fratello era Eddie Burns, che viveva a Detroit e aveva suonato con John Lee Hooker e molti altri. Quando ci vide suonare ne rimase sbalordito. Ma non l’ho saputo che anni dopo. Quando me lo ha detto la prima volta ero del tutto ignaro. Mi disse, -Billy sei responsabile di avermi fatto tornare al blues-Ed io- Cosa? Ma di che stai parlando?
Di recente è scomparso Moses Rutues Jr, tuo batterista per tanto tempo e lo scorso anno Carly Weathersby.
Beh, Moses è stato il mio batterista per trentacinque anni, è molto tempo. Se ne è andato poche settimane fa ed era una di quelle persone cui tutti vogliono bene. Era sempre di buon umore, il primo ad ogni concerto, metteva e punto meticolosamente la sua batteria, lucidava i cimbali…faceva qualunque cosa per la band, se a qualcuno serviva un passaggio o aveva la macchina rotta anche se era dall’altra parte della città lui diceva, vado io a prenderlo. Dava tutto per la band. Mi era molto affezionato ed è stata una perdita davvero tragica, stava bene ma era caduto e si era rotto l’anca, anche se l’intervento era andato bene ha subito un arresto cardiaco e non si è più ripreso. Aveva smesso di suonare con me, ma eravamo rimasti in contatto, un caro amico, mi manca molto. Anche Nick Charles, mio bassista per venticinque anni se ne è andato e Carl Weathersby, col quale ho suonato per diciassette anni. Così come J.W. Williams, che era presente quando avevamo i Sons Of Blues/Chi-Town Hustlers e molti altri amici, Don e Ralph Kinsey, Jimmy e Syl Johnson ed altri ancora…tutto questo ti fa capire quanto sia preziosa la vita.
Pensi sia una tua responsabilità andare avanti anche per i tuoi amici scomparsi?
Beh, molti miei colleghi mi hanno detto cose come -Billy, sei ormai uno dei pochi che sanno suonare l’armonica nello stile Chicago…e ho realizzato che è così. Anche se ho collaborato con artisti di vari generi e questo album forse non è un album di blues tradizionale ma è molto bluesy. Ho suonato con artisti africani, Samba Touré e Sidi Touré, messicani come Son De Mader, un’artista indiana, Sarah ma non so pronunciare il suo cognome…mi è piaciuto, perché è una sfida continua. Ma l’armonica nel Chicago blues, una tradizione di cui sono onorato di far parte, è quasi un’arte in via d’estinzione…voglio dire, in molti provano a suonarla, ma io ho avuto la fortuna di imparare dai maestri. Ho mancato Little Walter e Sonny Boy, ma ho studiato i loro dischi e Sonny Boy aveva insegnato a Junior Wells e James Cotton ed io ho imparato da loro, oltre ad aver passato parecchio tempo con Walter Horton. E molti altri armonicisti come Good Rockin’ Charles, Easy Baby, John Wrencher, Big Leon Brooks, Jewtown Burks…erano tutti miei amici.
E probabilmente non molti ricordano alcuni di loro, per esempio uno come Wrenchere che era solito suonare a Maxwell Street.
Andavo a vederlo, anche io frequentavo Maxwell Street e poi suonavamo entrambi allo stesso club, Elsewhere, lui aveva un matinée la domenica ed io suonavo con Jimmy Walker e un altro amico che non c’è più, Pete Crawford. E John Wrencher, non lo scorderò mai, mi disse- Hey Billy, me ne vado giù in Mississippi a trovare i parenti, perché non vieni con me? Ci beviamo un po’ di moonshine e corriamo dietro a qualche ragazza…- Ma non ci sono andato con lui non ricordo la ragione, lui andò e purtroppo morì nel sonno, non è mai tornato. Mi ritengo fortunato ad aver conosciuto molti di loro, grandi artisti che non hanno mai fatto soldi, né acquisito grande fama, ma erano musicisti genuini e di grande talento, ognuno a suo modo. Ho raggiunto un’età in cui ho vissuto più di tanti dei miei maestri, mentori o colleghi e avere questa connessione personale è speciale.
Era molto diverso allora.
Sono arrivato sulla scena del blues di Chicago quando andava ancora molto forte. Nel south side e nel west side, i quartieri neri, ogni sera c’erano otto o nove posti diversi dove potevi sentire blues dal vivo. C’erano persone come Lefty Dizz, Buddy Scott…Dizz era l’anello di congiunzione tra la mia generazione e la sua, era un tipo forte e sempre generoso verso i giovani. È stato il mio primo amico sulla scena blues ed era un personaggio. Come dice una delle mie blues sisters, Deitra Farr, – sai cosa manca nel blues al giorno d’oggi? Quei personaggi! – Le loro personalità erano smisurate…Junior Wells, Magic Slim, Hip Linkchain, James Cotton, Big Walter, Carey Bell, Jimmy Dawkins erano tutti veri personaggi, bigger than life, leggendari. E poi c’erano anche tipi come Fenton Robinson, che a volte suonava con noi, Son Seals…e li potevi vedere ogni settimana, molti di loro gratis. Un tempo magico.
E cinquant’anni fa, nel 1975, sei entrato nella band di Willie Dixon.
Sentirlo dire così mi fa davvero sentire vecchio! Ma hai ragione, sono uno dei vecchi ora. È qualcosa di notevole, come se il tempo sia passato in un batter d’occhio. Non ci avevo pensato.
In quel periodo hai registrato per George Paulus e la sua Barrelhouse Records, “Bring Me Another Half Pint”, cosa ricordi?
È stata di sicuro la prima volta che ho cantato in studio, all’epoca ne ero spaventato ma hanno insistito. Cantai “Hoochie Coochie Man”, che di certo non considero tra le mie cose migliori, ma ero giovane e avevo appena cominciato. Non conoscevo molto bene Paulus, so però che non ricevemmo neanche un penny per quelle registrazioni. Ma quando sei giovane vuoi solo suonare, non pensi molto ai soldi. L’occasione di finire su un disco è eccitante per un giovane musicista. Penso che abbiamo registrato allo studio di Willie Dixon nel south side, così come per una registrazione di McKinley Mitchell intitolata “That Last Home Run”. Devo verificare quale delle due sia stata fatta per prima. La canzone parlava del fatto che Han Aaron, il giocatore di baseball, stava per battere il record di fuori campo di Babe Ruth. Si sentiva anche il suono del pubblico che esultava nello stadio del baseball. Wilie era sempre due passi avanti, perciò disse, -Hank Aaron sta per battere il record di Babe Ruth, farò meglio a scriverci una canzone.
Negli anni Ottanta registrasti per la L+R.
Si abbiamo fatto un album dal vivo e uno in studio, “Young Blues Generation”, che credo sia ancora un bell’esempio di blues classico. Era magico, con Lurrie, avevo appena ingaggiato J.W. Williams e Moses Rutues ed avevamo Eli Murray alla chitarra ritmica. Registrammo l’intero album nel giro di quattro o cinque ore. Qui puoi davvero sentire Lurrie Bell all’apice delle sue capacità, la sua genialità e di conseguenza mi ha indotto a suonare alcune parti davvero interessanti.
Cosa ne pensi di questa nuova generazione di artisti blues, come Kingfish, Jontavious Willis, D.K. Harrell, Sean McDonald o Harrell Davenport per citare solo alcuni di loro?
Penso sia fantastico vedere l’affermazione di questi giovani artisti afroamericani, uomini e donne, di grande talento. Harrell Davenport a diciotto anni canta come un bluesman di sessanta, sta diventando molto disinvolto su chitarra e armonica e quando viene a Chicago è ospite a casa nostra, passiamo diverso tempo insieme. Studia ed è molto diligente, mi dice cose sulle registrazioni che ho fatto che non sapevo nemmeno io. Quando eravamo qui a fare un barbecue durante il Chicago Blues Festival sul portico abbiamo guardato dal telefono il festival ascoltando tramite blutooth, c’erano D.K. Harrell e Stephen Hull e ho detto ad Harrell: lo sai da quanto tempo stavo aspettando che veniste fuori voi ragazzi? Anche se non sono stato coinvolto direttamente nell’insegnare a loro mi sento di aver avuto una piccola parte in tutto questo, visto che insegno blues dal 1978, quasi cinquant’anni…
Hai seminato bene, per così dire.
Esattamente! Dopo tutti questi anni è importante. Quando insegno a scuola, ora ho un programma che si estende per otto settimane, bisogna dire che questi ragazzi non hanno una particolare inclinazione per la musica, a parte alcuni, ma per altri il vero problema è l’attenzione, fanno fatica a restare concentrati. Ma una cosa che ribadisco è l’importanza del blues come cultura afroamericana e cultura in generale, perché il blues ha influenzato musica in giro per il mondo. È corretto dire che il Chicago blues ha avuto un grande ruolo nella British Invasion, si sono tutti fatti le ossa ascoltando Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Walter…perciò che questi giovani musicisti capiscano che questo fa parte della loro cultura è importante, anche perché la nostra cultura qui come afroamericani è stata virtualmente cancellata. C’è persino un movimento contro l’inclusione della cultura afroamericana nelle scuole e in alcuni Stati è vietato insegnarla. In alcuni posti c’è chi sostiene che la schiavitù fosse una buona cosa e abbiano portato qui gli africani per imparare qualcosa e avere cibo gratis. Ma sappiamo che queste sono solo stronzate. L’ho imparato da Willie Dixon, ogni giorno che tengo Blues In The Schools, invito quattro o cinque bambini a ripetere uno slogan, call and respones: Perchè siam qui? Per cantare e suonare i blues! E cosa sono i blues? I fatti della vita. E cosa rende i blues così importanti? Sono la nostra storia, la nostra cultura e le radici della musica americana. Ma viviamo in un’epoca differente, le influenze dominanti sono i telefoni e i computer e le sfide dell’insegnamento ne sono giocoforza condizionate.
Dovresti scrivere un libro.
Oh, me lo dicono tutti di continuo, mia moglie Rosa, tutti quanti…forse lo farò. Ma abbiamo grandi aspettative per questo disco, riflette il nostro tempo e c’è un messaggio, un pensiero.













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