CHARLIE MUSSELWHITE Mississippi Son cover album

Etichetta: Alligator 5009 (USA) -2022-

Nessun dubbio che Charlie Musselwhite sia figlio del Mississippi, per origine biografica e musicale e lo abbia dentro di sé ovunque lo abbia portato la sua strada. Questo disco, il primo vero e proprio solista in studio, almeno da “The Well” uscito su Alligator nel 2010, sancisce anche il suo ritorno in pianta stabile nello stato natale, a Clarksdale, per la precisione.

Charlie ha trascorso la decade scorsa tra due collaborazioni di successo con Ben Harper e una con Elvin Bishop, oltre a pubblicare diversi dischi dal vivo, per la sua etichetta, Henrietta.

Ci sono pochi musicisti ancora attivi che incarnano appieno il blues quanto lui, dignità e naturalezza senza pari, una vita trascorsa a suonare la sua musica in giro per il mondo, con la stessa inattaccabile passione. E in questo disco c’è una sorta di summa del suo percorso, di molti suoi incontri e amicizie e del gusto per l’ascolto di cose non necessariamente blues, ma che lo diventano nelle sue mani.

E’ il caso di “The Dark” di Guy Clark, che diventa un talkin’ blues ruvido. Riscopre anche, nella maggior parte dei brani la dimensione solitaria, voce e chitarra, già percorsa occasionalmente oppure in un gran disco autoprodotto, “Darkest Hour”, in vendita ai suoi concerti.

In sei canzoni si fa invece accompagnare da musicisti locali, il contrabbasso suonato da Barry Bays (visto anni fa con Big George Brock) e la batteria minimale di Ricky “Quicksand” Martin.

Per il repertorio, come ci ha detto lui nel corso dell’intervista, ha scelto canzoni che gli piacciono. Il che vuol dire, in questo caso, nuove versioni di suoi pezzi già incisi in passato, chi conosce bene la discografia di Charlie ritroverà “My Road Lies In Darkness”, “Stingaree” o “Blues Up The River” oppure la “Pea Vine Blues” che registrò anche per un tributo a Charley Patton uscito su Telarc ormai vent’anni fa.

Sono pezzi rivissuti con la sua impronta personale, pochi passaggi di chitarra, ma tutt’altro che banali e il soffio di un’armonica dall’identità riconoscibile tra mille. In “Remembering Big Joe”, uno strumentale per chitarra, rende omaggio al vecchio amico Big Joe Williams, utilizzando una delle chitarre a lui appartenute. John Lee Hooker è invece rievocato con “Crawling Kingsnake”.

Col piccolo combo affronta invece tempi medi dai sapori genuini “Drifting From Door To Door” o “When The Frisco Left The Shed”, pezzi davvero pervasi di classicità.

L’album si chiude con una composizione “A Voice Foretold” di Lee Breuer e Bob Telson (in origine composta per il musical Gospel At Colonus) che già Charlie aveva rivisitato, intitolandola “Sanctuary”, per l’omonimo album del 2004, in una interpretazione molto sentita.

Il suo rifugio Charlie l’ha stabilito a Clarksdale, ma siamo pronti a scommettere che il piacere di suonare per il suo pubblico lo riporterà sulla strada ben presto. In attesa di ritrovarlo dal vivo quest’album ci farà compagnia a lungo.

 Matteo Bossi

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