eric bibb ridin

La discografia di Eric Bibb si allunga costantemente con nuovi capitoli, è arrivato qualche mese fa “Ridin’”, successore di “Dear America” e per molti versi nel segno della continuità, tematica e musicale. Cambia l’etichetta, dopo un disco su Provogue/Mascot, Eric torna a pubblicare su Stony Plain per il mercato nordamericano e Dixiefrog per quello europeo, quel che non cambia è la collaborazione col fido Glen Scott, più che un produttore un vero e proprio braccio destro, in grado di cucire i suoni con estrema cura e gusto, dai cori al tappeto ritmico, tutto funziona a puntino.

Per la foto di copertina, ritratto a cavallo, si è ispirato ad un dipinto ottocentesco di Eastman Johnson, A Ride For Liberty, che ritrae una famiglia di schiavi afroamericani a cavallo, in fuga verso la libertà. Ed è in effetti un “freedom train” quello su cui Eric ci invita a salire nella canzone titolo; il treno si ferma in luoghi cardine, quali Memphis, Selma, Rosewood o il Mississippi, ricordando ancora il Reverendo King o Emmett Till. (Al quale aveva dedicato una canzone nel disco precedente).

Come spesso nei suoi dischi vi sono alcuni ospiti, amici vecchi (Harrison Kennedy, Amar Sundy, Mahal, Koite) e nuovi (Willis, Malone), venuti a condividere un momento musicale o ad arricchire di senso un brano. Ed ecco allora comparire su “Blues Funky Like Dat” (nomen omen),  Taj Mahal e il giovane Jontavious Willis, tre generazioni di artisti afroamericani si divertono con un blues salace e scanzonato. Habib Koité e Lamine Cissokho (kora) spostano “Free”, soprattutto nella seconda parte, in un altrove sonoro in cui l’Africa occidentale si fa idealmente più vicina alla Svezia, terra di residenza di Bibb.

“The Ballad Of John Howard Griffin” è dedicata all’autore, ad inizio anni Sessanta, di “Nero Come Me” (edito più volte anche in italiano, l’ultima ristampa si deve alla Fandango e risale al 2021), resoconto di alcune settimane nel Sud dopo essersi sottoposto a procedimenti per scurire la pelle e poter passare per afroamericano e sperimentare cosa volesse dire. La sua storia la rievoca con un accompagnamento minimale e le pennellate della chitarra jazzata di Russell Malone (già al servizio di Diana Krall, Ron Carter o Branford Marsalis). Gli ariosi fraseggi di Malone tornano anche in “Hold That Line”, un brano dal testo empatico e umanista, come nel carattere di Eric.

Il tocco di Scott lo si apprezza nell’equilibrio degli arrangiamenti, nei due interludi strumentali di raccordo o nella coralità di “Joybells”, quasi un gospel in cui Bibb enuncia i nomi delle tantissime vittime di linciaggio. Nel finale Eric si riappropria anche di “People You Love” un brano cantautorale, che aveva inciso in coppia con Pura Fé per un di lei album del 2007 (“Hold The Rain”), qui diventa un ballad dolente sul legame destinato a non spezzarsi tra coloro che amiamo ed hanno per così dire, passato la soglia. Propone anche una sua rilettura di “500 Miles”, brano tradizionale, nel repertorio anche di suo padre Leon (la cantava anche nel loro album comune “A Family Affair”) o una ispirata versione dal vivo, davvero molto bella, di “Sinnner Man” con la string band dell’epoca, più o meno di “Deeper In The Well”(Dirk Powell, Grant Dermody, Cedric Watson).

Bibb continua a tracciare una traiettoria sua, fatta di storie universali e particolari accomunate da una visione consapevole e solidale e a metterle in musica con una sensibilità del tutto personale. E lo fa circondandosi di artisti affini, grazie ai quali  allargare, una volta di più, la sua famiglia musicale (tanto per richiamare il titolo di un altro brano del disco).

Matteo Bossi

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