È con piacere che ritroviamo all’inizio di quest’anno, un disco di JJ Grey & Mofro. Una vecchia conoscenza, che avevamo imparato ad ascoltare con attenzione agli inizi del nuovo millennio, con dischi intrisi di umori del Sud come “Blackwater” (2001) o “Lochloosa” (2004) marchiati Fog City Records, ma che ritorna oggi all’Alligator da una sua parentesi di miglior successo: quella dei suoi “Country Ghetto” o “Orange Blossom” (2008) fino alla celeberrima edizione dal vivo del cd con dvd (quando ancora significava qualcosa) “Brighter Days” (2011). Un vertice, per una carriera intrisa di soul, funk, blues, r&b e tutta una amalgama musicale compresa nel paesaggio che la Florida naturalistica ha voluto significare nella sua produzione: quella di un performer internazionale, ma pur sempre e infinitamente locale. Poi, l’appiglio europeo è venuto col suo ultimo disco del 2015, “Ol’ Glory” (su etichetta Provogue, infatti) ma da allora, come racconta lo stesso JJ, nove anni sono volati e con la pandemia, anche i lavori ad “Olustee” sono stati rallentati. Ma non hanno mai smesso di suonare, i Mofro, e anche nell’attuale produzione autografa di questa volta, J.J. Grey ci traghetta  sull’altra faccia della Florida, tra paludi, acquitrini e macchia che dire “Florida”, appunto, è dire poco.

Non è la consueta carica di energia però, a condire queste “soundtrack” delle Everglades (pur presente all’alternanza di alcune tracce, come “Top Of The World” o la title track, e così immancabile su altre di matrice esplicitamente soul, come “Starry Night” o “Waiting”) quanto piuttosto un corpus di orchestrazioni più melodiche, a rendere l’album una visione quanto più poetica e nostalgica, come a sottolineare anche un’attenzione ecologica a ciò che rischiamo di perdere. Quantunque, dai racconti di JJ Grey (e famiglia) pare che lo stato coll’emblema del palmetto abbia sempre fatto i conti con gli incendi. Ed è intorno a questo la trama di “Olustee”, località poco distante da dove sta JJ Grey. E’ un altro disco che si fa anche lezione di geografia, fatta come di racconti del leader sulla veranda di casa, sull’hovercraft tra le paludi (e gli alligatori)  o nelle parole che intessono i testi, come coordinate paesaggistiche di un fantastico sound. Così, la splendida ode al mare di “The Sea” in apertura, che ci spinge quasi a immaginarla cantata da un compianto Chris Cornell, così diversa dai canonici stilistici di JJ Grey; splendidamente romantica è anche la ballata “On A Breeze” e nella medesima vena artistica, l’unica reinterpretazione della bella “Seminole Wind” di John Anderson. L’arte di JJ Grey si rivela perciò in “Olustee” più come quella di un cantautore, che nei suoi abiti altrettanto calzanti di sofisticato crooner urbano, tanto loquace quanto un vecchio uomo del Sud. E il contesto che unisce l’uomo e l’ambiente si compenetra nei suoni e in quanto di più immanente possa esserci alle storie che il “Grigio” evoca, tra i rustici scenari boschivi, sotto il porticato imbracciando l’acustica, in un profondo amore e rispetto per la sua terra, ispirazione fondamentale per la sua stessa musica, a farne qui quasi un concept. Episodi più tradizionalmente “JJ” non mancano tuttavia in “Wonderland”, potente, o “Free High”, fiatistica.. “& rhythm”; e “Rooster”, la più esplicita in ciò, è un manifesto. Ma è “Deeper Than Belief” a dirci di una svolta e un flauto jazzy, alla prima curva della strada. Bentornato, Grey!

Matteo Fratti

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