Nel lontano numero 99 de Il Blues compariva una intervista a Nick Moss raccolta da Matteo Fratti in occasione del passaggio al Vallemaggia Magic Blues dell’artista di Chicago, durante l’estate del 2006.

Se al tempo Moss era un emergente, autore di alcuni apprezzati dischi sulla sua etichetta Blue Bella, di acqua sotto i ponti ne è passata non poca. Lo ritroviamo così alla vigilia del terzo disco per Alligator, “Get Your Back Into It!”, per una lunga chiacchierata via Zoom.

L’intervista a Nick Moss

Le tue prime incisioni risalgono a trent’anni fa su questo disco, “Money Talks” della Legendary Blues Band. Che effetto ti fa?

Legendary Blues Band Money Talks cover albumSì, suonavo il basso su quel disco…Sai, quando qualcuno ti mostra un disco come quello mi ritornano in mente tutti i ricordi. Non sembra tanto tempo fa, eppure sono passati trent’anni da allora. Sono successe un sacco di cose. I miei genitori non erano musicisti, ma amavano molto la musica. Mia mamma metteva sempre dischi di blues, soul, jazz e rock’n’roll e mio padre doo-wop e musica delle big band…venivano sempre suonate a casa nostra.

Io e mio fratello siamo stati fortunati, i nostri genitori ci hanno sempre incoraggiati. Lui è stato il primo a chiedere una chitarra un anno per Natale. Ricevette una chitarra acustica economica. E Joe, mio fratello, è un talento naturale, l’ho sempre considerato un musicista migliore dal punto di vista tecnico, conosce la teoria e il modo in cui le sue dita lavorano, non capisco nemmeno la metà di quella roba.

Siamo cresciuti ascoltando le stesse cose, poi ci siamo dedicati anche allo sport, facevo sport ed ero in una band. Io ero abbastanza bravo in diverse cose, football e wrestling, pensavo sarei andato al college grazie ad una borsa di studio per lo sport, ma si scoprì che avevo un problema genetico che nessuno sapeva avessi fino all’età di diciotto anni.

Lo avevo sempre avuto, ma non era allo stomaco era alle reni, così mi dovettero rimuovere l’80% del rene e questo significava la fine di qualsiasi sport per me. Mio fratello, mentre ero ricoverato in ospedale in convalescenza, mi ha portato a vedere Little Charlie and The Nightcats lì attraversato la strada, al Wise Fool’s Pub.

Era l’epoca del loro primo album su Alligator e non c’era nessuno a vederli, forse dieci persone. Avevano suonato a Chicago soltanto un paio di volte prima, ma mio fratello li aveva sentiti alla radio e mi aveva detto, “ho sentito questa band, ti farò uscire da qui a andremo a sentirli”.

Lo ha chiesto ai medici e alle infermiere, “hey, lui è in ospedale da sei settimane e sta per essere dimesso, posso portarlo a cena, fuori da qui?”. Per qualche ragione i medici acconsentirono, gli dissero soltanto di non stancarmi e riportarmi lì per le 9…cosa che sapevamo non sarebbe successa! Così abbiamo attraversato la strada e siamo andati a vederli suonare.

Tutto il tempo che ho passato in ospedale mi autocommiseravo, non avrei più potuto giocare a football, ma quella sera il talento, l’amore e la gioia di suonare che trasmettevano…mi piaceva già il blues, ma scattò qualcosa vedendoli suonare e mi dissi che questo era quello che avrei voluto fare.

E lo hai fatto.

Quando mi sono ripreso mio fratello ha cominciato a portarmi in giro a tutte la blues jam della città. E la cosa si è sviluppata da lì. Abbiamo iniziato a conoscere persone, Joe ha trovato un ingaggio con Buddy Scott ed io li seguivo ai concerti con la moglie di Buddy, Pat.

Avevo diciannove anni e allora non avevo un’idea precisa di quanto fossero tosti questi tizi. Ho visto Buddy Ace, Bobby Bland Johnnie Taylor entrare in un club e suonare con la band di Buddy Scott.

Non sapevo che Buddy fosse un tipo cos influente, ma tutti gli volevano bene. E le donne lo adoravano. Avevo ascoltato Bobby Bland e Taylor ma non sapevo chi fosse Buddy Ace.

Poi ho imparato quanto fossero importanti tutti loro. Abbiamo iniziato a frequentare anche i club del North Side e a vedere musicisti come Willie Kent e Magic Slim…tutti questi grandi erano ancora in circolazione.

Come hai iniziato a suonare con Willie Smith?

Nick Moss Vallemaggia 2006 foto Matteo Fratti

Alla fine avevo trovato un lavoro come bassista in una piccola band e una sera Melvin Smith, che era il bassista per Koko Taylor, ci eravamo conosciuti alle jam, mi disse, “hey, Willie Smith sta cercando un bassista”.

Io avevo incontrato Willie solo un paio di volte, così gli chiesi, “cosa è successo a Fuzz?” “Penso che Fuzz sia tornato in Mississippi”, mi rispose lui. Melvin gli diede il mio numero di telefono e ricevetti una chiamata da Willie.

Mi portò in tour con lui, aveva finito i bassisti! Nessun altro poteva andare. L’unica altra esperienza che avevo era stata con Jimmy Dawkins ma lì avevo incasinato tutto io.

Ero giovane e non conoscevo abbastanza a fondo la musica. E Jimmy mi tenne soltanto per sei mesi. Non era facile seguirlo, oltretutto aveva questo batterista, Ray Scott, che a sua volta non era per nulla facile da seguire. Perciò essendo un ragazzino mi incasinavo.

Non penso che Jimmy sapesse come spiegarmi cosa voleva o cosa stessi facendo di sbagliato, mi ha semplicemente lasciato andare e mi ricordo quella sensazione.

Non volevo che mi succedesse ancora, così ho continuato a studiare, ascoltare dischi e andare nei club ogni sera a vedere Bob Stroger, Willie Kent e Fuzz Jones quando era ancora in città. Tutti grandi musicisti.

Quando Willie Smith mi chiamò ero più preparato a suonare. Mi ricordo che per la prima settimana in tour Willie continuava a tenermi d’occhio mentre suonavamo e alla fine una sera, dopo circa sei date, mi disse, “tutto sommato mi piace come suoni, credo che ti terrò”.

Ed ho finito per restare a suonare per lui per quattro anni, prima di passare alla band di Jimmy Rogers. Ed è stato più o meno in quel periodo che sono passato dal basso alla chitarra.

Prima hai citato Magic Slim. Anni dopo hai prodotto uno dei suoi dischi su Blind Pig, “Midnight Blues”. Dev’essere stato speciale.

Certo, è stato molto speciale. Stavamo parlando con Jerry Del Giudice, uno dei proprietari della Blind Pig, della possibilità che registrassi un disco per loro, era un fan dei dischi che avevo pubblicato da solo.

Quando mi sono messo in proprio, dopo il periodo con Jimmy Rogers, ho pubblicato un album, “First Offense” nel 1998 o ’99. Ho provato a finire su Blind Pig, Alligator o Delmark ma ero ancora un ragazzo e per la maggior parte non volevano provare a vendermi ad un pubblico che non sapeva chi fossi.

Attorno al 2007 cominciai a parlare con Jerry, sembrava che potessimo firmare per loro, ma un’altra cosa di cui parlammo era che fossi un grande fan di Magic Slim. Al tempo, su un paio dei miei dischi avevo fatto cose che avresti detto suonavano un po’ alla Magic Slim.

Mi è sempre piaciuto il suo stile, il suo modo di suonare è sempre intenso e molto incentrato sul groove. E Jerry un giorno mi buttò lì, “hey, stiamo per fare un nuovo album di Magic

Slim, ti andrebbe di produrlo?” Ed io, “Davvero? Mi piacerebbe molto”. Ed è stata una delle session più divertenti cui abbia mai preso parte. Slim mi faceva ridere tutto il tempo.

Ho anche potuto scegliere le canzoni che hanno inciso, Otis Clay e Cotton hanno suonato su quel disco…Fu molto divertente. Mi ricordo di Slim e Michael Blakemore, il suo manager, possano entrambi riposare in pace, erano grandi persone.

Slim poteva essere problematico a volte ma era sempre molto giocoso, come un bambino. Mi faceva divertire. Una bella esperienza.

Molti di questi artisti di cui stiamo parlando, purtroppo non ci sono più.

Sì, così è la vita, tutti se ne vanno. È strano, ho foto sopra il camino di tutti i mie amici che non ci sono più, Willie, Jimmy, Lynwood Slim, Mike Ledbetter…C’è un ragazzo nella mia band attuale che ha appena 21 anni, Pierce Downer, il batterista.

Ho avuto gente come Mike Ledbetter, Patrick Seals, Nik Skilnik o Matthew Wilson che ora suona con John Nemeth. Un sacco di ragazzi giovani sono passati nella mia band ed è strano per a 53 anni avere uno come Pierce.

Ho realizzato ora che avevo la sua età quando me ne stavo seduto in un van e tutti gli altri musicisti avevano dai quaranta ai settant’anni! Ero un ragazzino e tutti erano molto più vecchi di me, anche se non sembrava lo fossero e certamente non si comportavano come tali. Ci divertivamo.

Non ho mai pensato a questo più di tanto se non forse negli ultimi dieci anni. Ho avuto musicisti giovani nella band per necessità, perché magari alcuni dei vecchi hanno lasciato la band e non vi erano più molti altri in città disposti a suonare blue tradizionale. Di conseguenza mi sono messo a cercare ragazzi giovani che fossero interessati e volessero l’opportunità di suonare.

Non ho messo insieme le cose. Non ho mai pensato intenzionalmente, ora vado fuori e insegno a qualche ragazzino. Sono cose che, semplicemente, succedono. A questo punto della mia vita, sono estremamente grato pensando a Willie, Jimmy o Pinetopo…tutti loro mi hanno ammesso alla loro presenza e mi hanno trasmesso la conoscenza che avevano, che riguardasse la musica, la vita o qualunque altra cosa.

Ho avuto accesso a tutte le angolature del loro sapere. Ed è stato dannatamente incredibile.  Davvero. Con i ragazzi che sono con me ora, prendo le cose un po’ più seriamente e dico loro, “voi ragazzi non avete idea di come sia stato essere con loro! Sto cercando, a mio modo, di farvi vedere quel che ho imparato e come fosse, se ascoltate bene potreste imparare qualcosa”.

Credo sia molto diverso per loro. Tu hai suonato e sei stato in tour con Willie Smith o Jimmy Rogers. Loro al massimo li hanno visti sui filmati da youtube.

Sì, questo è un altro discorso. Pierce, il mio batterista, a casa suona con amici della sua età, chitarristi ed è divertente e insieme incoraggiante vedere questi ragazzi. A volte vengono anche ai miei concerti.

Quando parlo con loro mi dicono di aver visto un video su youtube mentre io alla loro età dovevo riavvolgere le cassette mille volte! Sono felice che sia a disposizione. Ma non potranno capire davvero l’umanità, la crudezza e per assenza di una parola migliore, la “funkiness”, l’odore e l’attitudine di essere in un van con cinque tizi che provengono da un altro mondo, da un’altra terra.

Sono cresciuto come un ragazzino bianco dei sobborghi, anche se c’erano ragazzi neri e ispanici, restavo il ragazzino dei sobborghi e ora ero nel van con loro. Non che ci pensassi all’epoca, mi limitavo a vivere il momento. Ero abbastanza ingenuo perché la cosa non mi destabilizzasse. Penso che a volte non pensare troppo aiuti. Il mio atteggiamento era del tipo, “oh, vogliono che suoni con loro. Che forte”.

La vivevo come quando aiutavo mio padre a fare qualche lavoretto in casa, lui mi diceva sempre: “stai zitto e ascolta. Imparerai qualcosa. E se non sai qualcosa, chiedilo. Preferisco sentirti dire che non hai capito qualcosa e chiedere, non essere troppo orgoglioso.” E loro non avevano mai discussioni esoteriche, niente del genere, era il loro modo di fare, suonavano e basta.

Molte volte vedi gente della mia generazione o anche più giovani, ti accorgi che stanno pensando molto a quello che stanno facendo mentre suonano, ma questo non funziona, la musica diventa sterile.

Nick Moss Dennis Gruenling

Nick Moss Dennis Gruenling foto Michael Kurgansky

Per entrambi i tuoi dischi su Alligator hai lavorato con Kid Andersen. Questa volta avete lavorato senza di lui nel tuo studio di Chicago.

Il primo lavoro su Alligator lo abbiamo inciso al mio studio, Kid è venuto a Chicago. Mentre il secondo lo abbiamo realizzato nel suo studio. Dennis vive a Los Angeles ed era riluttante a viaggiare durante la pandemia, io non ero a mio agio se non lo era anche lui.

Perciò abbiamo aspettato a lungo. Ad un certo punto, penso che Bruce abbia chiesto qualcosa come “perché voi ragazzi non registrate e poi mandate le tracce a Dennis a L.A.?”.

Ma non è il modo in cui mi piace lavorare, voglio vedere in faccia i ragazzi in studio. Non abbiamo lavorato molto per tre anni ed anche il budget era ridotto, non avevamo abbastanza soldi per volare in cinque fino a San Jose o far venire a Chicago Kid e la sua attrezzatura.

Ed inoltre Kid è super occupato. Così ho parlato con Bruce e gli ho detto, “hey, mi hai messo sotto contratto sulla base delle mie registrazioni per Blue Bella e le ho prodotte tutte io. Produrrò anche questo nuovo”.

Ed ha detto subito di si. Il mio amico Pete Galanis, un ottimo musicista, è venuto a darmi una mano come ingegnere del suono, perché se c’è  una cosa che detesto è stare lì a pigiare i tasti di un computer e fare l’editing di tutti…voglio solo suonare.

Posso dire agli altri cose deve essere fatto, ma per il resto preferisco avere qualcuno che se ne occupi. Poi abbiamo mixato il disco agli studi di Pete a Chicago.

Ci siamo divertiti molto nel farlo. Sax Gordon è venuto circa un mese dopo a registrare la sua parte. Lui è incredibile. John Kattke ha suonato l’organo su un altro pezzo.

Eravamo pronti a pubblicare qualcosa dopo tre anni. Mi ricordo che Bruce quando gli abbiamo dato il mixaggio finale ha detto, “oh c’è molta musica! E tre brani strumentali…possiamo toglierne uno?”

E ho detto di no. “Ma lo faremo in Lp, dobbiamo essere sicuri che la musica ci stia”. Così abbiamo fatto qualche aggiustamento e accorciato alcune canzoni.

Ma ci è stata tutta su un Lp. Ho appena avuto una copia test, sembra bellissimo. Non ho mai avuto un mio album su Lp. Fantastico.

Che effetto ti fa essere su Alligator, una delle ultime etichette di blues rimaste? Qual è il tuo rapporto con Bruce Iglauer?

La gente dice un sacco di cose su Bruce. È un po’ stravagante ma non puoi discuterne il successo. E a volte viene da cose che il resto della gente semplicemente non capisce.

Ho cercato di entrare all’Alligator per molti anni e Bruce essendo Bruce mi rispondeva per lettera. Non so come trovi il tempo di ascoltare tutto quello che gli mandano ma in qualche modo lo fa.

E mi mandava le sue lettere scritte in verde, con un commento brano per brano su cosa gli era piaciuto e cosa no. Mi ricordo che di solito leggere tutti quei commenti mi frustrava un po’, finchè un giorno non ho compreso che non stava dicendo che fossi tremendo, nulla del genere.

Finiva sempre dicendo, mandami il prossimo, mi piacerebbe ascoltarlo. Era una specie di mappa per arrivare a quel che voleva sentire, se leggevi tra le righe, un giorno avrebbe detto, questo mi piace proprio, lo voglio sulla mia etichetta. Una volta, ad uno show al Buddy Guy’s stavamo parlando e gli chiesi, “cosa ne pensi del concerto?”

E lui disse, “beh sai Nick nessuno se ne torna a casa canticchiando l’assolo di chitarra”. Sono un chitarrista, perché lo diresti? Ma poi ho capito che vorrebbe che la gente si ricordasse della canzone in cui era contenuto l’assolo. So che i modi di Bruce possono sembrare poco ortodossi, ma è ancora qui ed è in circolazione da tanto tempo.

Posso dirti che nonostante tutti gli anni di conoscenza e frequentazione sulla scena blues di Chicago, pensavo di non poterlo conoscere meglio. Finchè non ho firmato per lui. Una volta fatto questo, ho capito che non lo conoscevo bene quanto credevo. È una persona di grande umanità, ama questa musica, il suo lavoro, il suo business.

C’è chi direbbe che vuole controllare ogni cosa, ma credo che per qualcuno che ama ciò che fa e il proprio prodotto a tal punto, sarebbe difficile fare altrimenti. A volte fa domande e una ne porta ad un’altra. Ma quando ci ripenso, capisco che solo qualcuno che pone così tante domande tiene davvero tanto ad una cosa. Lo rispetto molto e apprezzo che ami la musica e quello che fa.

Preferirei avere nella mia squadra che ha un interesse così profondo. E quando parliamo dei musicisti della vecchia guardia gli si illuminano gli occhi. Un’altra cosa che apprezzo di lui.

Hai pubblicato diversi dischi sulla tua etichetta Blue Bella, non soltanto i tuoi ma anche di Cash Box Kings, Kilborn Alley, Gerry Hundt, Bill Lupkin, Matt Stubbs…

Erano miei amici e nelle mie stesse condizioni. Non riuscivano a far in modo che qualcuno si interessasse a loro. Dissi semplicemente, “guardate, abbiamo questa piattaforma e se avete abbastanza soldi da mettere insieme il vostro prodotto, posso aiutarvi a pubblicarlo a trovare uno stesso distributore.

Voi ragazzi farete qualche soldo e sembreremo una vera etichetta!”.

E so che tua moglie Kate è stata di aiuto.

Beh, per mettere le cose in chiaro, non è stata di aiuto. Ha fatto tutto lei! Aiuto non rende per niente l’idea. Io non sapevo nemmeno cosa stessi facendo, suonavo soltanto. Lei faceva tutto, graphic design, pubblicità, packaging, spedizioni…A tutt’oggi il mio sito e altre cose sono frutto del suo lavoro e da dei suggerimenti talvolta, anche con la nuova copertina.

Kevin ha fatto un grande lavoro, ma c’erano un paio di cose, cambiamenti che volevo ma non riuscivo a spiegarmi. Ne ho parlato a Kate e lei ha scritto una mail a Kevin. “Ok, ci sono, ora ho capito, so quello che vuoi”, ha risposto lui. Tutta la roba che siamo stati in grado, no meglio, che lei è stata in grado di imparare su questo business, è incredibile che siamo arrivati dove siamo arrivati.

Abbiamo avuto Nomination ai Blues Musica Awards, non solo peri miei dischi, ma per la Kilborn Alley. Ricordo il giorno in cui pensavo avrei firmato il contratto con Alligator, Bruce mi ha invitato al quartier generale per conoscere lo staff. Non avevo idea che ci fossero tredici o quattordici persone che lavorano per Alligator.

C’erano dieci o undici di loro attorno a un tavolo e altri tre o quattro al telefono. Bruce ha cominciato il meeting presentandomi allo staff, dicendo “Nick e la sua bellissima moglie Kate hanno dato vita a questa label, hanno fatto un sacco di lavoro…” E mi sentivo molto fiero per me e mia moglie. Poi ognuno si ha presentato sé stesso e il proprio lavoro.

Nel mentre pensavo, “hey aspetta un attimo, noi non abbiam mai fatto nulla di tutto questo! Come siamo arrivati così lontano?”. È incredibile quanto siano un gruppo ben amalgamato e siano tutti valide persone.

Come hai iniziato a suonare con Dennis Gruenling? È accaduto nel periodo in cui Mike Ledbetter stava lasciando il gruppo?

Nick Moss Dennis Gruenling

Nick Moss Dennis Gruenling foto Karo Achten

Ho smesso parecchi anni fai di cercare di capire se ci sia qualcosa che deve essere fatto per arrivare dove vorrei. Parte di questo processo è riconoscere quando si presenta un’opportunità.

E molte volte mi sono lasciato sfuggire delle cose perché non ho capito che quella cosa specifica fosse un’occasione. Magari pensavo fosse un intralcio o una seccatura sulla mia strada.

Dennis l’ho incontrato quando ho pubblicato “First Offense”, mi ha scritto una lettera, non una mail! Scrisse qualcosa del tipo, “mi chiamo Dennis Gruenling, sono del New Jersey, sono un armonicista della tua età e mi è davvero piaciuto il tuo CD.

Faccio il DJ part time in una stazione radio locale. Se mai passi da queste parti, fammelo sapere e forse potrei organizzare un concerto”. Ed è successo.

Quell’estate suonavamo sulla costa est e avevo bisogno di trovare un paio di date. Dennis mi ha aiutato a trovarle ed ha suonato con noi. Siamo diventati amici e ogni volta che passavo di là ci vedevamo. Poi ha cominciato ad andare in tour con Doug Deming & The Jewel Tones, Doug era un mio amico dell’area di Detroit.

Ci vedevamo qualche volta in giro e li ho persino ospitati a casa mia quando passavano da Chicago. Siamo rimasti amici. Poi nel 2016 Mike Ledbetter ha registrato questo disco con Mike Welch, all’inizio doveva comparire come ospite ma, mi disse Mike, aveva finito per registrare tutte le canzoni ed era venuto fuori davvero un buon disco.

“Con Mike abbiamo parlato”, aggiunse, “e ci piacerebbe portarlo in tour ed esplorare a fondo quest’opportunità”. Mike era di famiglia, abbiamo suonato insieme per tanto tempo. Non sono mai stato il tipo da mettermi in mezzo per impedire la crescita di qualcuno.

Curtis Salgado mi ha detto una cosa, una volta e cioè, “chi sono io per avercela con qualcuno che sta lasciando la mia band? Posso star male perché  mi mancherà, ma questo tizio ha seguito il mio sogno per anni.

Aiutandomi a viverlo, senza seguire il proprio”. Perciò quando Mike è venuto da me gli ho solo detto, “Ok, ma non rendiamolo pubblico fino al nuovo anno, abbiamo già diverse date fissate”, era ottobre, “poi ci sarà la Blues Cruise e lì faremo un annuncio”.

Una settimana dopo ricevetti una chiamata da Dennis, “hey, devo suonare a Grand Rapids, Michigan, un tributo per questo tizio che raccoglie fondi per comprare lapidi per vecchi artisti di blues e jazz.

Vogliono che faccia un tributo a William Clarke, voi non potreste accompagnarmi?” Gli dissi di sì. Siamo andati e abbiamo suonato ed erano diversi anni che non mi trovavo a supportare un armonicista, con Mike suonavamo altre cose, non abbiamo mai avuto un armonicista.

Ma ci siamo divertiti molto a suonare cose più tradizionali o in stile jump/swing. Mi sono detto, questa roba è divertente, tornerò a suonare più blues tradizionale, ci sono cresciuto.

Durante la pausa, con Dennis eravamo seduti a parlare nel backstage, gli dissi che Mike avrebbe lasciato la band e come mai non suonasse più con Doug, era perché non voleva andare in tour? “No”, rispose lui, “la cosa ha semplicemente fatto il suo corso”.

“Che ne pensi di suonare alcuni concerti con noi? Stasera è stato divertente”, gli chiesi. Lui ha detto subito di sì. E volevamo proseguire, così chiamai la Blues Cruise per sapere se avessero una stanza in più e potesse venire anche lui. Volevo poter dire al pubblico che Mike lasciava ma che ora la band sarebbe stata così. Sarebbe stata una buona transizione.

Così abbiamo fatto e nell’ultimo show lo abbiamo reso pubblico.

Ogni cosa accade per una ragione?

Sì, come quando ho conosciuto mia moglie. Ero bloccato in una serie di strane relazioni, dall’adolescenza fin quasi ai trent’anni.

Sono anche stato fidanzato per cinque anni. Ma non era una buona cosa. In pratica sono uscito con la stessa tipologia di donna da quando avevo diciassette anni. Poi un giorno ho capito che non potevo stare con una persona del genere. Non funzionava per nessuno. Con mia moglie siamo stati amici per lungo tempo, dal fatto di essere entrambi sulla scena blues.

Un giorno ho preso una decisione dopo un brutto episodio con la mia ex, stavo parlando con Kate, mi stava aiutando a superarla e le dissi di getto, “ma perché non sto con qualcuna come te?” E lei rispose, “già, non so davvero perché?”  E stiamo insieme da allora.

Matteo Bossi


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