Octave Records (USA) -2023-

A sei anni dal disco precedente, il notevole “Fantasizing About Being Black”, torna Otis Taylor con un nuovo album, caratterizzato, come del resto tutta la sua discografia, da una visione molto personale e da una musica scura, densa e pregnante. Otis, sin dai lavori che lo hanno rivelato come “White African” o “Respect The Dead”, agli inizi del nuovo millennio, si è ritagliato un posto tutto suo nel panorama musicale. Un posto che continua ad occupare, potremmo dire, in solitudine, non si scorgono infatti, all’orizzonte, suoi epigoni o seguaci. Diverso nell’approccio alla scrittura, scarna, quasi epigrammatica eppure evocativa e immaginifica, diverso nella costruzione dei suoni e nella gestione delle dinamiche. Anche i titoli dei suoi lavori non sono mai banali. In questo caso il “Banjo” non indica una predominanza dello strumento nel disco, bensì vuole rimarcare il suo legame stretto con la storia degli afroamericani. E colpisce anche la copertina, buffalo soldiers in tenuta da baseball col volto annerito, a sottolineare quanto i neri fossero cittadini di seconda classe, invisibili.

Questo nuovo lavoro lo ha inciso nella sua città, Boulder, Colorado, con un piccolo gruppo di musicisti con i quali ha suonato spesso, tuttavia differenti da coloro che ha avuto accanto nelle ultime due prove in studio. Non ci sono ad esempio la violinista Anne Harris e il compianto cornettista e trombettista Ron Miles, scomparso purtroppo nel marzo 2022. Sono della partita stavolta Nick Amodeo, basso e mandolino, con lui anche nelle date europee dello scorso autunno, Chuck Louden alla batteria e l’organo o piano di Brian Juan. Inoltre, ritroviamo Jon Paul Johnson alla chitarra solista in qualche brano e due violoncellisti.

Taylor ha scelto di affiancare a sette nuove composizioni, quattro rivisitazioni del suo passato, rilanciando quasi una sfida a sé stesso, quella di portare le sue composizioni in nuovi territori, riarrangiandole completamente. Si tratta di una cosa già sperimentata con successo, pensiamo per fare solo un esempio alle tre versioni, altrettanto affascinanti, di “Walk On Water”, consegnate ai solchi di “Truth Is Not Fiction”, “Pentatonic Wars And Love Songs” (col trio jazz di Jason Moran) e infine su “Fantasizing About Being Black”.

Qui riprende “Little Willie”, racconto dell’omicidio di un bambino, dilatato su un incessante tappeto ritmico, due violoncelli, le coloriture date dall’organo e un bel solo di Johnson. Spiazzante anche la rilettura di uno dei suoi pezzi più fortunati “Nasty Letter”, finito anche nella colonna sonora di diversi film/serie tv, anche in questo caso il brano viene trasfigurato grazie soprattutto ai fraseggi ripetuti dei violoncelli (Beth Rosbach e Joseph Howe).

La sua musica non risulta meno inquieta nemmeno in una situazione più stringata, come in “12 Feet Under”, dove il protagonista chiede di essere sepolto in profondità, sostenuto solo da una sovrapposizione di banjo e chitarra. Oppure ancora “Hit From The Left”, con accanto i soli Amodeo e Louden, il riff del banjo scandisce un testo dai connotati aforistici, “you love in silence and you hate out loud” o “that’s how you fight, you fight for freedom”. “Travel Guide” è espressione di desiderio, quasi di un’ossessione, resa ancor più particolare dalla batteria minimale, percussiva e dall’uso straniante di un sintetizzatore Moog da parte di Brian Juan. Più lieve  invece “Write A Song About You”, il consiglio di una nonna al nipote, “occhio a quello che fai, potresti finire in una canzone”; un contrasto con la scura “Resurrection Blues”, già tra i cardini del suo memorabile “White African” del 2001, resa più acida dalla chitarra di Johnson e da un crescendo drammatico. Il finale è affidato alle lunghe volute di “Live Your Life” (già posta in chiusura di “Respect The Dead”) con un effetto quasi trasognato per via del tappeto del piano, un invito a cogliere il momento, prima che sia troppo tardi.

“Banjo”, registrato con grande cura dei suoni e con la consueta attenzione che lui riserva al mixaggio degli strumenti, si va ad incastonare in un corpus discografico denso,  fatto di esplorazioni sonore e deviazioni coraggiose, senza seguire un cammino prestabilito ma tracciandone uno indiscutibilmente suo. Basta seguirlo a ritroso per aver piena contezza di come  Taylor sia tra gli artisti più personali degli ultimi venticinque anni.

 

Matteo Bossi

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