Tra i tanti maghi della Sacred Steel, potete vedere un eccellente film su questo argomento sul sito della Ahroolie Foundation, Robert Randolph è quello che ha avuto più successo. Successo commerciale. Enfant prodige della steel guitar, totalmente immerso nella tradizione Gospel della Sacred Steel, che qui non rievochiamo perchè non ce ne dovrebbe esser necessità, alla fine del secolo scorso, appena ventenne, Randolph ha cominciato ad inanellare una serie di collaborazioni: Clapton, Ben Harper, Dave Matthews Band, Santana, Sheryl Crow solo per nominarne alcuni, che lo hanno proiettato nella galassia variegata delle stelle del rock. Quattro nomination ai Grammy Awards, Tredici agli Emmy per contributi musicali in produzion tv, jingles per la NBA, e una manciata di ottimi album da frontman della sua Family Band completano il quadro di un’artista dalla personalità matura, grazie anche all’ambiente nel quale è cresciuto.
Non solo un mago nel suo genere ma una persona affidabile. Altrimenti non lo avrebbero chiamato. Fino a qui, tutto bello, tutto chiaro. Per comprendere Robert Randolph bisogna sapere che non viene dal Blues, non viene dal Soul, non viene dal Jazz, viene dal Gospel e da lì passa direttamente al Rock e Preacher Kids (Sun Records) e’ l’album piu’ rock che abbia fatto. C’è un’impostazione sonora generale che, è un’opinione, ricorda i Led Zeppelin, riffs di chitarra sanguinosi, batteria possente, stacchi vocali insomma tutto l’ambaradan del rock ben confezionato con assoli e ricami di Steel, ovviamente. I primi sei pezzi, con l’eccezione di “Gravity”, un notevole pezzo Funk con una gran parte di basso che ricorda i Soul Live, si snodano così, un po’ anonimi.
Poi improvvisamente l’atmosfera cambia: in “King Karma”, con Margo Davis, Randolph firma una bella canzone seppur mantenendo i canoni rock. Giusto preludio per lo zenith di questo disco, “When will love rain down”, con Judith Hill alla voce, che potrebbe essere uscita dalla penna di Doyle Bramhall o magari da quella di John Paul Jones. “All night lover”, con il suo inizio oscuro, evoca un po’ le Mississippi Hills ma e’ quasi un flash, soppresso dall’ennesimo riff rock. Sembrerebbe che questo disco nasca da una serie di jams, molto probabile quindi che sia solo una tappa, un omaggio alla sua gioventù, nel percorso di un musicista che dara’ ancora molto alla musica afro-americana.
Luca Lupoli
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