Il viaggio verso una meta ormai fissa per la nostra redazione inizia con un bello ed assolato pomeriggio milanese (si, senza nebbia) per arrivare, dopo aver passato Lugano e lâomonimo lago, al San Gottardo giĂ bellamente imbiancato. Quello che ci attendeva, dopo i 17 km di galleria, era fredda pioggia e nuvole basse.
Posate le valige in hotel (sempre di grande livello lâospitalitĂ dellâorganizzazione) ci siamo subito trasferiti verso il Gran Casino Luzern dove, con puntualitĂ svizzera, iniziava la serata con lâapertura affidata ai fratelli Dave e Phil Alvin accompagnati dal chitarrista Chris Miller. Il trio, comodamente seduto, ci propone un set elettro-acustico abbastanza intimo dove le voci di Phil e Dave confermano la loro grandezza lasciandoci, invece, stupiti per il tanto spazio lasciato a Miller, non certamente una delle migliori sorprese di questo festival.
Un concerto piacevole dove emerge una grande fatica fisica per Phil (maggiormente percepita nellâincontro seguente nel backstage) che, però, quando canta rimane un leone.
A seguire Lou Ann Barton cantante texana di lungo corso, nota per gli inizi accanto a Stevie Ray Vaughan, mentre discograficamente ha diradato le prove, concedendosi il gusto di duettare con Jimmie Vaughan negli ultimi due dischi dellâex chitarrista dei Fabulous Thunderbirds. Proprio dallâattuale formazione del gruppo proviene il chitarrista Johnny Moeller, guida della formazione che lâaccompagnava, insieme al fratello batterista Jay. La band fa un buon tappeto, in linea con la tradizione texana, la Barton però si affida ad un repertorio un filo scontato, pezzi come âTi Na Nee Na Nuâ, âI Hear You Knockinââ o âShake A Handâ. Proseguendo con altri classici come âScratch My Backâ o âCanât Stand To See You Goâ.
John Primer, un ritorno sempre gradito, capitanava il âMuddy Waters 101 Tributeâ, un set di Chicago Blues rotondo e compatto, con altri volti noti nella band, quali lâillustre Bob Stroger, decano dei bassisti di Chicago e dintorni e Billy Flynn, chitarrista di classe, allievo di Jimmy Dawkins, habituĂŠ dei palchi di Lucerna. Allâarmonica abbiamo ritrovato un altro figlio dâarte, Steve Bell, musicista di buon impatto, sulle orme del padre o di James Cotton. Sezione ritmica (Media / Scharf) e tastiere facevano il loro lavoro. Primer è bravo e come dimostrato, per lâennesima volta, nel disco tributo a Waters prodotto lo scorso anno da Larry Skoller, conosce a fondo la materia. Ottima la sua versione di âDouble Troubleâ, piĂš legata a Muddy Waters ( e Howlin Wolf) il resto dei brani, dall’immancabile âGot My Mojo Workingâ, â40 Days & 40 Nightsâ a âMeet Me In The Bottomâ. Un set di blues rassicurante e ben suonato.
Chiude la prima serata al Casino, la revue rhythm and blues di Earl Thomas, cantante proveniente dalla West Coast, con un gruppo ben assortito, con tastiere e una sezione fiati. Thomas ha una bella voce e un repertorio personale, pescato in parte dal suo disco piĂš recente âCrowâ, cose come âI DonâT Believeâ e âSomebodyâs Callingâ sono esempi di credibile rhythm and blues senza essere per forza vintage e qualche cover ben fatta, Â âSoulshineâ (W. Haynes). Uno spettacolo condotto con professionalitĂ .
Il canadese di Ottawa JW Jones era giĂ stato a Lucerna nel 2009 e anche questa volta aveva il suo trio, Mathieu Lapensee alla batteria e Laura Greenberg al basso. Anche lui ha un nuovo album, prodotto da Colin Linden e per la prima mezzora fa un buon concerto, tra qualche suo pezzo, âSame Mistakesâ e âThe Price You Payâ e un bel tributo a Buddy Guy del quale ha aperto recenti concerti canadesi, âTell Me Whatâs Inside Of Youâ imparata, ha detto JW, ascoltando il âLive At The Checkerboardâ. Peccato nellâultima parte del concerto si sia disunito, mostrando la corda in passaggi chitarristici dimostrativi e al fine superflui.
Sono ancora i fratelli Moeller, con un secondo chitarrista, ad accompagnare Lazy Lester, ultraottuagenario, uno degli ultimi alfieri dello swamp blues. Nonostante qualche oscillazione della band nellâassecondare il buon Lester, lui se la cava ancora piĂš che dignitosamente. Soffia nellâarmonica e canta con voce quasi intatta alcuni classici del suo repertorio, âBlues Stop Knockingâ, âMy Home Is A Prisonâ, âSugar Coated Loveâ, la âThatâs Allrightâ di Jimmy Rogers. Poi imbracciata la chitarra si lancia anche in un paio di pezzi country tra cui âBlue Eyes Crying In The Rainâ un poâ accelerata rispetto a quella celebre del suo coetaneo Willie Nelson, entrambi sono infatti classe 1933.
Eâ il momento di Bettye LaVette e la signora non delude, sempre caratterizzata da una teatralitĂ che sfiora il parossismo. Puntuale il gruppo, come facile intuire, ma la differenza la fa la sua voce. Eâ questa la forza che tiene insieme un repertorio eterogeneo, che non si focalizza solo sullâultima, felice, fase della sua carriera, ma recupera ad esempio una ballata dalla grande carica drammaturgica, âSouvenirsâ, dal suo album su Atlantic rimasto sugli scaffali per quasi trentâanni. Negli slow, costruiti come un crescendo di tensione, dĂ il meglio, âBless Us Allâ è un altro esempio. Comincia però da âUnbelievableâ (Bob Dylan), una tonante, arrabbiata âJoyâ (Lucinda Williams), scherza sullâetĂ , ma non si risparmia, âSleep To Dreamâ (Fiona Apple). Magnifica davvero âClose As Iâll Get To Heavenâ e sempre emozionante la chiusura, a cappella, con âI Do Not Want What I Have Not Gotâ. Un piacere risentirla.
Un altro ritorno, gradito, quello di Carl Weathersby, in un quartetto con lâesperto Russell Jackson al basso, Ronald Moten alle tastiere e Jeremiah Thomas alla batteria. Carl, trasferitosi dallâinizio dellâanno ad Austin, Texas, resta un chitarrista molto competente il cui stile si fonda su maestri come Albert King e Otis Rush. Lo si vede da come suona âBorn Under A Bad Signâ o âCrosscut Sawâ. Chiama a raggiungerlo sul palco John Primer e Steve Bell, per una âScreaming And Cryingâ condotta con reciproco divertimento e con lâuso della slida da parte di Weathersby. Però ogni tanto si divaga, cita Santana o gioca con la chitarra, suona altri classici (troppi?), come âHow Blue Can You Get?â o âReconsider Babyâ con cognizione di causa, eppure ci resta la sensazione che uno come lui possa dare qualcosa in piĂš.
La serata di sabato si apre con Bonita & Blue Shacks, gruppo tedesco dedito ad un jump blues vivace, con fiati spesso in primo piano. Bonita, una giovane di origine sudafricana, tiene la scena con esuberanza, lanciandosi in svariati pezzi del loro recente album insieme, quali âTurn The Lamps Down Lowâ o âDonât Call Me Babyâ. Ma dopo una mezzora divertente lâatmosfera si fa eccessivamente manierata, stante le capacitĂ tecniche della band.
Siamo in territorio affine con la big band di Otis Grand, il che fa sorgere qualche dubbio sulla scelta di programmarli uno di seguito allâaltro. Grand ha messo insieme un gruppo esteso, una sezione fiati di ben quattro elementi, lâottimo Bruce Katz alle tastiere (sessionman dal curriculum lunghissimo), Brian Templeton alla voce e il nostro Ray Scona alla chitarra ritmica. Ogni componente ha il suo momento, Grand su tutti, essendo il leader, dirige la band e chiama gli interventi, dimostrandosi sempre a suo agio nelle atmosfere anni Cinquanta / Sessanta, specie in un medley omaggio a B.B. King con citazioni di âSweet Little Angel / Itâs My Own Fault / Sweet Sixteenâ. Ray canta anche un brano, âPretendâ, un rockânâroll swingante e divertente, che apriva âBlues â65â di Otis qualche anno fa. Valido il piano di Katz in un dinamico boogie. Templeton canta un paio di brani e suona anche lâarmonica. Qualche parola infine sulla chitarra di Grand, rotonda e memore delle lezioni dei maestri, specie sulla costruzione delle dinamiche. Non male nellâinsieme, ma lâeffetto revue risulta a volte un limite e il suono non sempre risultava ben bilanciato.
Tuttâaltra musica quando sul palco tornano i fratelli Alvin, questa volta con tutta la band per il concerto, senza ombra di dubbio, piĂš bello ed intenso di tutto il festival. Oltre a Phil, con una Martin a tracolla e la sua proverbiale voce, Dave e la sua Stratocaster e cappello di paglia, troviamo sul piccolo palco del Casino, oltre al giĂ citato Miller piĂš defilato, gli straordinari Brad Fordham al basso e Lisa Pankratz alla batteria, capaci di incantare il pubblico accorso allâesibizione. Questa volta il sound è quello che ci aspettavamo, forte, corposo, blues e roots e veramente tanto americano. I Blasters degnamente omaggiati (âMarie Marieâ, âBorder Radioâ), tanto blues con âI Feel So Goodâ (Muddy Waters), âThe World Is In A Bad Conditionâ (The Golden Gate Jubilee Quartet), âHide And Seekâ (Big Joe Turner), âSouthern Flood Bluesâ e âTrucking Little Womanâ (Big Bill Bronzy) e le perle, dal repertorio di Dave, âJohnny Ace Is Deadâ e una toccante âWhatâs Up With Your Brotherâ che vede i due fratelli duellare scherzosamente. Chiusura con una fantastica âTurn On Your Lovelightâ in una versione che sembra uscire dal famoso Live dei Grateful Dead, che ci accompagna alla fine di questa esibizione che resterĂ impressa nella memoria dei tanti presenti consacrando, se ce ne fosse bisogno, i due fratelli nellâolimpo delle star.
Peccato la sala si sia quasi svuotata, perchĂŠ il gruppo zydeco del giovane californiano, ma i suoi genitori sono della Louisiana, Andre Thierry. Talento precoce, ha formato la sua prima band appena adolescente, Thierry e i suoi coetanei Zydeco Magic, animano un concerto spumeggiante, per i pochi che sono rimasti a hanno ancora voglia di muovere qualche passo di danza. Da âZydeco Runâ a âTee Blackâ, Thierry canta bene e il suonatore di rubboard CJ Philips spesso doppia la sua voce. Abbiamo ancora modo di cogliere buona parte dell’ultimo set al Casineum, il Chicago blues classico di John Primer e soci, in una sala ancora piena di pubblico, prima di arrenderci alla stanchezza.
Eâ tutto anche per il 2016, qualche picco ma non molte sorprese, il festival resta fedele a sĂŠ stesso e alla propria, ben meritata, reputazione. Ma forse proprio date le credenziali e i cartelloni che ha saputo allestire in questi anni, ci si potrebbe attendere in futuro qualche nome emergente o fuori dagli schemi, magari acustico, dimensione assente questâanno.
Antonio Boschi e Matteo Bossi
Comments are closed