Nato in Alabama nel 1964, Michael Benjamin risiede dai primi anni Ottanta in California. Negli ultimi quindici anni si è fatto conoscere con una serie di solidi lavori discografici, dapprima sulla sua etichetta Jukehouse poi anche su Bigtone e in ultimo su Little Village Foundation. Cantante molto dotato e autore dalla penna fertile e ispirata, Mike si è dimostrato a suo agio tanto in ambito blues tradizionale quanto con brani che vanno in direzione soul / blues, come alcune cose del suo più recente e riuscito lavoro, recensito qualche tempo addietro. Abbiamo avuto la possibilità di parlare con lui del suo singolare percorso di vita e musica.

Pensi che “Stuff I’ve Been Through” sia venuto fuori diversamente da altri tuoi dischi? Più soul/blues forse.

Volevo solo raccontare storie vere…quando ho cominciato a scrivere e registrare credo che le mie influenze sono emerse. Non ci posso fare nulla. Ma più che altro mi sono concentrato sulle storie, non tanto sul suono che avrebbero avuto le canzoni, perché una canzone trova la sua strada ed io posso solo stare a guardare. Ecco cosa è accaduto per questo disco.

 Alcune di queste storie sono molto personali, come la canzone titolo oppure “This Ain’t No Disneyland”.

Beh, si vedi, alla fin fine penso che molti non raccontino davvero le proprie storie e non abbiano nemmeno alcun controllo creativo…così qualcun altro deve farlo. Io posso mettere su disco le mie storie e allo stesso tempo lasciare un’eredità, una traccia per qualcun altro, altri musicisti o persone che stanno a loro volta navigando in questa vita. Non devono nemmeno leggersi un memoir di cento e più pagine! Così è molto più accessibile, capisci? Ho molte altre storie da raccontare, perché sto ancora vivendo e cerco di prestare attenzione alle cose che succedono. Non vivo in una scatola o in una bolla, la mia musica deve riflettere la realtà. Ci metto un po’ di creatività ma non troppa.

Ha fondamenta.

Sì, è fondata sulla verità. Capisco cosa deve fare la gente in ambito di musica mainstream, non hanno alcun controllo. Ma io sono fortunato ad averlo. Ho sempre investito soldi miei per avere una qualche forma di controllo e almeno per scrivere il mio materiale. Ho scritto fin da quando ho iniziato, sono l’autore di almeno l’80% delle canzoni in ogni disco con sopra il mio nome.

Alcuni dischi sono usciti per la tua etichetta Jukehouse e ora sei con Little Village Foundation.

Sì e penso sia il posto migliore per me. Avevo un paio di offerte, volevano darmi dei soldi ma avrei dovuto rinunciare a qualcosa…e non ero davvero interessato a rinunciare a nulla. Voglio incidere il mio materiale. Non voglio dipendere da nessuno. Prima di andare dalla Little Village avevo già tutto pronto. Siamo amici con Kid (Andersen ndt) e Jim Pugh, abbiamo anche lavorato insieme ad un mio progetto precedente.

“Upset The Status Quo”

Esatto, abbiamo lavorato tutti su quello. Ma il disco non ho dedicato l’attenzione che avrebbe meritato perché sono partito in tour con un’altra band…

Quella di Andy T?

Sì. Ma era arrivato il momento di farlo, andare in tour, vedere come fosse. Prima di andare in tour con Andy T avevo un lavoro a tempo pieno.

Facevi il camionista?

Si e mi ero preso una pausa, ma poi a causa di un infortunio non sono stato in grado di riprendere. Perciò stavo cercando di andare in tour e quella è stata un’opportunità di farlo. Era una bella band, c’era anche Anson Funderburgh, è stato bello.

Alabama Mike foto Gianfranco Skala

Hai registrato anche con altri artisti come Diunna Greenleaf, Sonny Green, Billy Price…tutte session avvenute tramite Kid Andersen ai suoi studi Greaseland?

Sì e anche per Junior Watson, Rockin’ Johnny Burgin…mi chiamano quando serve un cantante o una parte vocale o anche solo trovarci. Anche per John Nemeth. Non sapevo che John fosse lì, ma Kid mi ha chiamato dicendo, “hey amico, stiamo facendo un disco per aiutare John….” Così sono arrivato in studio ed ecco fatto. Siamo molto amici con Kid.

Il gospel ha avuto molta importanza per te, tuo padre era un cantante in Alabama. Hai mai pensato di realizzare un disco gospel?

Non ho ancora inciso un album interamente gospel, ma mi piacerebbe molto. Ne ho parlato con un gruppo locale, a sua volta su Little Village, The Sons Of The Soul Revivers, sono piuttosto noti da queste parti. Le cose cominciano così, prima bisogna parlarne e poi l’occasione arriva. Da bambino mia madre era quella più attiva in tal senso, ci faceva provare e diceva che saremmo diventati un gruppo gospel. Per un paio di anni lo abbiamo anche fatto.

Che musica ascoltavate allora, soul/blues?

No, in realtà ho ascoltato soul blues solo dopo, quando ci siamo trasferiti. Mio padre e mia madre non ascoltavano quella musica a casa, c’era solo gospel tradizionale, i quartetti…Al massimo ascoltavano qualcosa di Sam Cooke o qualcosa del genere, ma non si spingevano oltre per quanto riguarda la pop music. Era sempre e solo gospel. Anche alla radio, da bambino, mi ricordo ancora i nomi dei programmi, Fairly Season, Gospel Cavalvades…era bella roba. Quando mi sono trasferito a metà anni Settanta ho cominciato a imparare altri aspetti della vita. Prima eravamo sempre in zone rurale, non c’erano città vicine. Ma ora nelle case popolari, era pieno di vicini, si viveva porta a porta con tutti, potevi sentire cosa succedeva negli altri appartamenti, c’erano feste, si beveva birra, giocano a dadi e ascoltavano musica. Io passavo il tempo con gli amici e con il loro genitori e non era gente di chiesa, perciò ascoltavano southern soul. C’era un negozietto di fronte alle case popolari dove vendevano 45 giri e Lp e cose del genere. Ho imparato allora, ascoltando i dischi di William Bell, McKinley Mitchell, Johnnie Taylor, Z.Z. Hill…

 

Alabama Mike Dany Franchi Tom Holland foto Gianfranco Skala

Sei stato in marina e poi ti sei trasferito in California. Come sei finito a far parte della scena blues?

Penso che quando sono arrivato in questa parte della California il blues non se la passasse benissimo, non c’era nessuno di veramente famoso eccetto B.B. King, tutti gli altri erano pesci piccoli…Per me è cambiato tutto quando ho iniziato ad ascoltare Lightnin’ Hopkins, volevo sapere tutto su di lui. C’era un posto a Berkeley chiamato Leopold, sono andato lì e ho comprato ogni disco di Lightnin che avevano. Non ne avevo mai abbastanza del suo modo di raccontare storie, non era per via della sua chitarra, anche se mi piaceva il suo stile, ma era proprio per le storie. Sono andato fino in fondo insomma e poi ho ascoltato molto anche Elmore James. C’era un posto a Richmond, California, nei primi anni Ottanta, chiamato Little Ricky’s, vicino al south side, dove abitavo, in cui c’era parecchio blues. C’era questo tizio che suonava armonica e chitarra nello stile di Jimmy Reed, con un reggiarmonica, si chiamava Maurice McKinnie. Lo andavo a sentire nei weekend. E semplicemente mi innamorai di quella musica. Ma non conoscevo nessuna scena. Oakland ne aveva una di cui non sapevo nulla. Non stavo cercando di essere un musicista blues, mi piaceva passare il tempo con la gente, tra il pubblico, era qualcosa di diverso da quello che facevo di solito. Ed era tutta gente davvero a posto, molte persone più vecchie quindi molto rilassate e questo mi piaceva, era divertente e la musica era buona. Ho conosciuto così Pete McGill. Passavamo tempo assieme e per suo tramite ho conosciuto molta altra gente. Ovunque andasse mi invitava a salire sul palco con lui. Iniziai ad andare a qualche jam ma non è che stessi cercando di diventare una star. Avevo il mio lavoro e non avevo nessuna intenzione di lasciarlo. E sembrava proprio che tutti gli altri al mio livello fossero fieri di avere un lavoro, perché non guadagnavano molto col blues. E poi non potevo lasciare il lavoro, ho famiglia, figli…Poi ho conosciuto Fillmore Slim, Jimmy McCracklin, Jackie Payne…tutti gli artisti che gravitavano attorno a Oakland in quel periodo. E mi sono fatto conoscere, sto ancora cercando di farlo. Mi ci è voluto un po’ di tempo ma ho cominciato da poco a farlo a tempo pieno…Talvolta in tour suono con altre band, ma mi piace soprattutto suonare con le band con cui lavoro abitualmente, The Mighty Revelators e The Greasland All Stars.

Come hai capito che eri in grado di scrivere canzoni?

Come dicevamo, a volte ascolti la musica di qualcuno, eppure, hai la sensazione di non sapere chi sia. Alcuni hanno persino gente che scrive le canzoni per loro e scrivono solo canzoni che si pensa possano piacere al pubblico. Sono orgoglioso di essere con questa etichetta perché non si sono mai intromessi su questo e la cosa mi piace. Non sono un musicista. Sai la gente mi chiede, “come fai a scrivere canzoni, non suoni il piano o la chitarra.” Dico lore che ho un sacco di storie, non necessariamente una canzone, ma posso scriverne tre o quattro in una seduta, dipende dallo stato d’animo in cui sono. Cerco di sviluppare una melodia in testa e penso ad altre cose che vorrei aggiungere. Quando la porto ai miei musicisti dò loro completa libertà, creano le loro parti, con il loro feeling…è davvero un processo collettivo. Io le canto ma rispetto molto quello che hanno da dire. Alcune canzoni hanno richiesto parecchio lavoro per essere finite. “Fat Shame” viene dal periodo del Covid. Mi è venuta l’idea quando ho capito che per molti era un dramma, era qualcosa che non avevano mai vissuto prima e il cibo è diventato un conforto. Ho due fratelli che hanno problemi di obesità e alla fine penso che per recuperare da qualsiasi cosa serva innanzitutto un cambio di atteggiamento.

E per l’armonica? Non hai iniziato da adolescente a suonarla.

Oh no, ho cominciato a imparare da solo che avevo già quarant’anni o giù di lì. E sto ancora imparando, ma va bene così. Posso suonare sulle mie canzoni, suono quello che sento. Non sono un musicista, ma lo sento, come sento se qualcosa non va nella band. Mi piacciono Sonny  Boy Williamson II, Junior Wells, Sonny Terry, Jimmy Reed mi piace, è perfetto per le sue canzoni, stessa cosa per Howlin’ Wolf, suonava quello che sentiva, non cercava di suonare come Sonny Boy. Niente tecnicismi. Mi piace Little Walter, lui è rimasto senza eguali, so che molti sono convinti di poter suonare come lui ma non è così. C’è un solo Da Vinci, un solo Picasso, un solo Jimi Hendrix…potrai avvicinarti, ma non sarai mai come lui. Ammiro Rick Estrin, Charlie Musselwhite o Billy Branch, ho imparato guardandoli, gente che è in giro da molto e continua a fare un grand lavoro…Mark Hummell, Jerry Portnoy…persone disponibili in tempo reale. E sono tipi forti, con un sacco di lick personalissimi.

Sei stato in Europa con la Soul Shot band, ma non ancora in Italia.

Mi piacerebbe venire, ma non ho avuto ancora nessuna proposta. Conosco il Porretta Soul Festival e altri posti. Ma ogni cosa a suo tempo, se succederà ne sarò grato e farò del mio meglio. Ma penso che la gente finisca per perdersi cercando di diventare una superstar in un genere che non ne consente molte. Io sono qui per una ragione più profonda, essere una star non fa per me, ma vorrei avere l’opportunità di farmi conoscere al pubblico e diffondere amore e buone vibrazioni.

 

Matteo Bossi


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