carolyn wonderland

Sembra aver saputo cogliere molte delle opportunità musicali del nascere in Texas, Carolyn Wonderland. Si dice che lo Stato della stella solitaria possa garantire ad alcuni musicisti di sopravvivere senza mai uscire da Austin, ad esempio, sicché vivere di musica non sia poi così proibitivo, per come la vediamo noi. Ma l’erba del vicino è sempre più verde e di questi tempi, anche noi ci chiediamo dove sia finita una certa “nostra” America. E il Texas, mica ha mai fatto mistero d’essere uno stato tra i più conservatori. Ecco perché, si dice ( lo racconta proprio qui a Matteo Bossi Carolyn Wonderland, nella lunga intervista per quest’ultimo disco) che: – “… la nostra musica è così buona, proprio perché la nostra politica e i politici stessi sono così terribili”!

Una teoria difficile da smentire, se non che bisogna anche essere capaci di farla, quella buona musica e lei s’è fatta notare persino dall’ultimo John Mayall, in quel ricco panorama d’orizzonti texani (di cui, riporta Kerouac “…tu guidi e guidi e domani sei ancora in Texas…”) divenendo così compagine chitarristica femminile nei suoi ultimi lavori (prima che lui s’accomiatasse, ahimé, là in alto coi grandi)!

E l’atmosfera collaborativa, che è l’imprinting più forte di chi sa farti tirar fuori il meglio, si percepisce godibilmente anche in questo stesso “Truth Is”(Alligator), com’era probabilmente anche nel precedente “Tempting Fate”: perché si replica la produzione di Dave Alvin, che è uno di quelli che “può” farti fare meglio; perché la compagnia è di quelle che si divertono reciprocamente, condividendo quelle collaborazioni, a miscelare una miriade di combinazioni: con Shelley King, Ruthie Foster, Marcia Ball e Cindy Cashdollar; ma anche lo stesso Alvin, per alcune chitarre; Naj Conklin al basso e Giovanni Carnuccio alla batteria. Sono dei credits importanti, quelli di “Truth Is”, affastellandosi in un universo di rock – blues che pone radici in un’eredità che da The Band passa per Tedeschi Trucks Band, in un sodalizio senza fine, che è solo buona musica.

Vedasi l’intervento di Dave Alvin, che c’è nell’apertura di “Sooner Or Later”, ma anche nell’ultima “Blues for Gene”: bellissimo “bluesone” dedicato all’amico pianista Gene Taylor; alle condizioni da “Nomadland” attraverso cui è passata anche Carolyn Wonderland e alle storie di un’America profonda. La compagnia di Ruthie Foster è poi sulla title-track, un po’ esercizio di stile, un po’ divertimento, che è poi denominatore comune dell’album, con ciò che si affronta seriamente nella stessa costruzione dei pezzi, non lasciando mai che una cosa escluda l’altra.

Un disco suonato, non c’è che dire e chi ascolta non può che condividerne il piacere di fare musica, come mille rivoli di un delta fluviale. Basti “Whistlin’ Pass The Graveyard Again” a infonderci quello spirito da jam e un giusto feeling, come fossimo “dal vivo”. Cosa chiedere di meglio a un disco, se non di risultare come aver lì i musicisti? Alla faccia di realtà virtuale o intelligenza artificiale, questa è musica vera!

Matteo Fratti

 

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