D.K. Harrell

YOUNG MAN BLUES

di Matteo Bossi e Philippe Prétet

Venticinquenne originario di Ruston, Louisiana, D.K. Harrell ha già raggiunto traguardi notevoli. Quest’anno ha pubblicato il suo album di debutto, “The Right Man”, un ottimo lavoro, uscito per Little Village Foundation. In esso ha potuto contare su una sorta di “dream team” comprendente, tra gli altri, Tony Coleman alla batteria, Jerry Jemmott al basso, Jim Pugh alle tastiere. Non potevamo non cogliere l’occasione di parlare direttamente con lui, durante la sua permanenza a Lucerna per l’annuale Blues Festival. Sul palco, come durante la nostra conversazione, D.K. dimostra grande passione nel suonare e rispetto per questa musica, oltre che una maturità ben superiore all’età anagrafica.

Partiamo dal tuo album. Ricordo di aver letto un articolo su di te su Living Blues lo scorso anno, in cui si diceva che stessi per registrare un album con un’altra band, com’è andata?

Si, il progetto che Scott Barretta ha menzionato nell’articolo era in realtà una sorta di versione grezza, una prima stesura, di quel che sarebbe diventato “The Right Man”. L’anno scorso in giugno ho tenuto un concerto benefit per alcuni amici in Rhode Island, per una bambina malata di cancro. Erano un po’ nervosi al riguardo, pensando se potessero permettersi l’ingaggio. Ma l’ho fatto gratis, proprio perché era per una bambina. L’organizzatore di quella serata, Rick Santos, mi ha detto, “hey, ho uno studio a casa, lo uso per registrare da quindici anni, sarei ben felice se tu volessi incidere qualcosa lì.” Certo, ho detto io. Perciò dopo, in agosto o settembre, sono tornato in Rhode Island e tutti i ragazzi che hanno suonato con me quella sera sono venuti allo studio. Abbiamo registrato qualcosa come dieci canzoni, forse undici, tutte nel giro di due o tre giorni. Poco dopo ho conosciuto il mio manager, Michael Kinsman. Sono entrato in contatto con lui tramite Damion Pearson dei Memphissippi Sounds, si parlava di festival. Michael non si occupava più del San Diego Blues Festival, però mi ha detto “che ne dici di fare un disco?”. Io gli ho detto, “beh, in effetti ne sto più o meno facendo uno”. “Ah, con che etichetta?” “Tutto indipendente, non è mixato e masterizzato, non è perfetto”. “Fammi ascoltare quello che hai”. Così gli ho mandato tutto quello che avevamo registrato in Rhode Island e lui mi ha detto, “è buono, ma potrebbe essere migliore”. Così per rispetto per i musicisti del Rhode Island ho chiesto loro se fossero d’accordo che io registrassi di nuovo le canzoni con una vera etichetta e musicisti migliori. E loro hanno detto, “ma certo, vogliamo il meglio per te”.

 

Poi cosa è accaduto?

Michael Kinsman ha contattato Jim Pugh della Little Village Foundation, che mi aveva già visto agli IBC di Memphis. Jim ha ascoltato le registrazioni e ha detto, “si possiamo di certo lavorare con questo ragazzo, ha qualcosa”. Arriviamo all’inizio di quest’anno, a gennaio ero alla Rhythm And Blues Cruise e con Jim abbiamo avuto modo di suonare insieme per la prima volta. Abbiamo trovato una buona chimica, gli è piaciuta la mia energia e anche sul piano personale. Aveva davvero intenzione di realizzare un disco. Mi ha detto, “cercheremo di farlo in marzo o in giugno”. Poi a fine gennaio/inizio febbraio mi ha chiamato dicendo, “ti faremo venire in marzo ai Greaseland Studios per tre giorni, hai delle canzoni?” “Jim ho almeno trecento canzoni nei miei scritti”. “Alcune di esse sono finite?” “Sì, alcune lo sono”. Così sono andato a San Jose, California, era circa il dieci marzo, Kid Andersen era là, Jerry Jemmott, il bassista originale su “The Thrill Is Gone”, Tony Coleman, batterista di B.B. per oltre vent’anni, Jim Pugh alle tastiere.  Abbiamo inciso undici canzoni in due giorni e mezzo. Ci siamo divertiti, certo, ma erano impressionati di come la prendessi sul serio. Credo abbiamo inciso la maggioranza dei pezzi in al massimo tre take. “Hello Trouble” e “Honey Ain’t Sweet” sono state registrate alla prima. Molte altre così, semplicemente le cose hanno funzionato. E Jim mi ha detto, “hai portato tutto tu, le canzoni sono tue, i diritti e il copyright sono tutti tuoi, noi ti abbiamo solo aiutato”. Il disco è stato in lizza per essere nominato ai Grammy, non l’ha avuta, ma va bene lo stesso; è rimasto al n. 1 delle Roots Music Blues Charts per dodici settimane e in Louisiana era n. 1 per venti settimane. Da cinque mesi è nelle Living Blues Charts…lo stanno ascoltando ovunque.

 

Tony Coleman e Jerry Jemmott pare non avessero mai inciso insieme per una session, già una pietra miliare per te.

Tony e Jerry so che hanno suonato insieme come Greaseland Allstars, credo abbiano suonato in Danimarca con Chris Cain, ma in effetti non erano stati in una session di studio insieme. Avere due dei sidemen di B.B., entrambi hanno presenti su dischi vincitori di Grammy, è qualcosa di grosso. E mi piace raccontarlo alla gente perché l’alchimia che hanno Tony e Jerry è impeccabile. Jerry trovava un groove e Tony gli andava subito dietro. Non hanno mai parlato dei brani, gli basta ascoltarsi l’un l’altro.

 

Che significato ha per un giovane artista come te essere circondato e accolto così bene da musicisti con decenni di esperienza nell’ambito musicale?

In effetti è incredibile, perché sono cresciuto ascoltandoli e guardando i loro video su youtube…se a tredici anni mi avessero detto che avrei fatto un disco con Jerry Jemmott e Tony Coleman non ci avrei creduto. Ora che è accaduto, è reale, mi sto ancora dando pizzicotti, non è facile credere che ho realizzato un album con queste leggende. Ed è, secondo me, un buel disco, in cui ci siamo supportati a vicenda in modo splendido. Parlo regolarmente con Tony e Jerry. Tony mi ha detto che quando gli è arrivata la sua copia fisica del disco e lo ha ascoltato sul suo camion, “questo è il miglior shuffle che abbia mai fatto”. E ne ha suonati parecchi! E Jerry mi ha detto che le session di questo album gli hanno riportato alla mente quelle con B.B. o Freddie King. Vuol dire tanto.

D.K. Harrell Lucerna foto Philippe Prétet

Ci hai messo molto di te stesso nell’album.

Ci sono molte storie vere, sì. “While I’m Young” è dedicata a mio nonno, che ha potuto vedere solo l’inizio della mia carriera. La mia prima performance vera e propria è stata al B.B. King Symposium del 2019, ho anche avuto modo di suonare Lucille. È stato bellissimo. Ma un anno dopo mio nonno si è ammalato di cancro ed è morto a causa di esso. Perciò mi ha visto suonare dal vivo solo tre o quattro volte, perché c’è stata la pandemia. L’ho scritta per lui, perché vorrei che fosse qui a vedere tutto questo. Ma sento che, se il Signore lo ha portato con sé in quel momento è stato un segno che aveva fatto tutto quello che un nonno può fare per suo nipote. Mi diceva sempre, “il tempo non aspetta nessuno, perciò fai quello che puoi ora”. La vita è breve e non si sa mai, anche se ho solo venticinque anni e non voglio portarmi sfortuna da solo. Lui è stato un pilastro della mia vita.

 

È stato lui a comprarti la tua prima chitarra?

No, è stato l’altro mio nonno, dal lato di mio padre. Era il 2011 o 2012, gli ho chiesto se mi potesse prendere una chitarra, perché lui conosceva bene un tizio che aveva un banco dei pegni. Avevano lavorato insieme e così mio nonno poteva ad avere sconti su qualsiasi cosa gli interessasse. Era un uomo di campagna, gli piaceva andare a caccia, riusciva ad avere un fucile da 500 dollari per 300 o 200. Quando gliel’ho chiesto lui mi ha detto, “ok te la prendo per Natale”. Così ha fatto e ce l’ho ancora oggi anche se cade a pezzi, non ci sono le corde e il retro manca…la farò sistemare, ma è una Stratocaster molto economica, non un gran che come chitarra. Ma ero felicissimo di averla. Ma il nonno non ne sapeva nulla di chitarre o amplificatori, ne prese una e un ampli a caso, ma era un ampli per basso! L’ho suonato lo stesso per un po’, fino a quando mia madre non mi ha comprato una seconda chitarra al banco dei pegni. Era una DeArmond fabbricata in Indonesia, non ne fanno più così. Anche questa ce l’ho ancora. Quando l’ho presa i pickup non funzionavano e allora l’ho portata in un negozio, ma il tecnico era veramente terribile. Gli dissi, “hey, mi servono dei pickup per questa chitarra” e lui rispose, “ok, sarà pronta prima di Natale”. L’ha preparata ma ogni volta che giravi la chitarra i pickup cadevano fuori, aveva dimenticato di metterci le viti! La suono ancora a casa ogni tanto. Qualcuno l’aveva ridipinta, ma era un lavoro fatto male, ci sono alcuni graffi e sotto si vede che era cherry red di colore. La mia terza chitarra l’ho presa quando ero al college. Noi americani sappiamo essere sciocchi coi nostri soldi a volte, compriamo quello che vogliamo e non quello di cui abbiamo bisogno. Così invece di comprare i libri per il college compravo chitarre e ampli…Ogni volta che avevo un rimborso per studenti andavo su siti come guitarcenter o reverb e guardavo “oh, ecco una Epiphone ES-335, mettiamola nel carrello, oh un Fender Champion 100 amp, mettiamo nel carrello anche questo”. Questa l’ho rivenduta, quando il lavoro era n ribasso, ma non la rimpiango.

 

Hai imparato da solo.

Quando ho iniziato a suonare non sapevo nulla sull’accordatura, ed è  stato un problema per un paio d’anni. Non sapevo proprio niente. Ho cominciato a guardare video su Youtube di B.B. King tra il 1968 e il 2013, studiando il suo stile, il tono, ma non solo questo, volevo anche imparare come stare sul palco, fare una performance, essere un entertainer. Guardavo anche James Brown, Otis Redding, Sam & Dave. Quando ho fatto il mio primo concerto a ventun’anni la gente mi diceva, “suoni come uno di quaranta”. Ed io rispondevo loro, “beh ho studiato molto”. Tutto quel che potevo fare era guardare i filmati, perché non avevo molti amici. Sono stato bullizzato molto a scuola, due persone mi hanno persino detto che avrei dovuto uccidermi a causa del mio aspetto. Ora invece mi chiedono come sia Lucerna, com’è il Brasile. Non serbo rancore, lascio che la vita segua il suo corso. Ho studiato per circa sette anni, guardando i filmati. Ho scaricato tutto, anche roba che ora non si trova più, magari per questioni di diritti o copyright. Ci passavo le ore nella mia camera a osservarli. Mi hanno preparato per il primo concerto, quello al Symposium.

D.K.Harrell

D.K. Harrell foto Gianfranco Skala

È un processo che richiede tempo.

Sì ed ero tutt’altro che perfetto! Nel mio primo gruppo il bassista una volta mi ha detto, “parli troppo, passa semplicemente al prossimo brano”. E ora parlo per introdurre la band o dico due parole per presentare un pezzo e basta. Poi la Mississippi Delta Blues Society di Indianola, la città natale di B.B. King, mi ha chiesto di partecipare al loro blues challenge. Non volevo farlo. Non mi piace la competizione, non ho mai partecipato a talent show a scuola, perché se uno ha talento non deve per forza farlo. Non è una gara, fai quello che fai. Solo che tutti continuavano a chiedermelo e ad un certo punto, per stanchezza, ho detto, “ok lo farò”. Ho chiesto a questo pianista del Minnesota che vive a New Orleans, Sam Joyner, ci eravamo conosciuti al Symposium, “hey Sam, vogliono che faccia questo challenge, puoi mettere insieme un gruppo?” Lo ha fatto e ci siamo trovati a provare. Mi ha chiesto, “hai qualche canzone?” “Ne una che si intitola Try to love you again and I don’t give a damn about my heart”. L’abbiamo preparata e suonata in un club, il Teddy’s Juke Joint di Zachary, Louisiana. Un posto che esiste da 46 anni e a Mr. Johnson, il proprietario, siamo piaciuti perciò ci ha proposto di tornare regolarmente a suonare lì. Vivo nel nord della Louisiana perciò mi ci vogliono quattro ore e mezza di macchina per arrivarci, guadagnavo solo un centinaio di dollari, ma ne valeva la pena. Alla fine, abbiamo partecipato al Challenge a Indianola, c’era una band coi fiati, molto valida, non ricordo il nome ora. Dissi al mio bassista, “non credo che vinceremo”. E lui, “credi in Cristo vero?”, “Certo, sono cristiano”. “Conosci la storia di Davide e Golia? Voglio che pensi a loro come Golia e te come Davide”. “Ok.” Dovevamo suonare per, credo, venti minuti, alla gente siamo piaciuti e abbiamo vinto. Quando ho sentito l’annuncio non ci potevo credere, avevo una stretta allo stomaco.

 

Così siete andati a Memphis.

A causa della pandemia gli IBC sono stati rinviati da gennaio a maggio 2022. Ero nervoso anche in quel caso, il primo Challenge, parliamo di un centinaio di band da tutto il mondo. I primi turni sono su due sere, poi semifinali e finali. La prima sera fu abbastanza difficile, Sam decise di finire il nostro set con uno slow blues lunghissimo e la cosa ha ammazzato il pubblico. La gente dell’Indianola Blues Society mi hanno detto, “non possono esserci due bandleader, il frontman dev’essere uno solo”. Così ne ho parlato con Sam e lui ci ha pensato su per ore e mi ha detto, “ok, sarai tu il leader nelle canzoni io ti supporterò”. Quella sera suonavamo al B.B. King su Beale Street, il posto era strapieno. Arriva il nostro turno e mi ricordo tutto, il pubblico era talmente rumoroso che mi facevano male le orecchie, ci fecero una standing ovation. Però Sam si è ammalato ed è tornato a casa, appena dopo aver saputo che avevamo raggiunto le semifinali. Così da un quartetto siamo diventati un trio e a me non piace suonare accordi, mi annoio…mi dicevo, perderemo, ci serve un tastierista. E sempre il bassista mi ha detto, “senti, abbiamo fatto 200 miglia per arrivare qui, ora continuiamo il challenge e arriviamo in finale”. “Ok”. Dovevamo sfidare Johnathan Ellison, The King Of Beale Street, aveva una grossa band coi fiati, erano molto coesi, davvero bravi. Abbiamo suonato i nostri pezzi, il pubblico ha applaudito e abbiamo ricevuto un’ovazione, ma eravamo in tensione per tutta la sera. Verso mezzanotte vediamo Joe Whitmer, della Blues Foundation, che va verso il Rum Boogie Cafè, siamo entrati e lui annuncia, “passano in finale, una band asiatica, non ricordo il nome, The Wacky Jugs, Cros e noi!” “Porca miseria!”Eravamo contentissimi. Il mio completo era malridotto ma era l’unico che avevo. Ho cercato di sistemarlo e stirarlo per salire sul palco dell’Orpheum Theatre. Siamo arrivati terzi. Credo che la nostra perseveranza e sportività, il supportare le altre band, ci abbia aiutato ad arrivare fin lì. È stata una bella esperienza, ci ha consentito di trovare anche alcuni ingaggi.

 

Christone Ingram mi ha raccontato che con Jontavious Willis ed altri ragazzi avete trascorso del tempo insieme in Mississippi. Cosa significa per te essere parte di una nuova generazione di afroamericani che stanno rivendicando l’eredità culturale del blues?

Da adolescente ho pensato a lungo di essere solo. Ma poi nel bel mezzo della pandemia siamo andati al Foxfire ranch di Waterford, Mississippi, che Christone, Marquise Knox e Jontavious Willis avevano organizzato per giovani artisti afroamericani di blues. È stato bellissimo sapere di non essere solo. E la cosa speciale è che ognuno di noi ha la propria personalità, mettiamo noi stessi, come giovani uomini, in questa musica e in questo modo cresciamo con essa. Ora siamo nel 2023 e in poco tempo sono successe molte cose. Kingfish coi suoi Grammy, Jontavious con la sua nomination, Marsquise con i suoi tour e i dischi, Stephen Hull idem, è stato anche in Africa e Sean McDonald, Jayy Hopp, Dylan Triplett…Durante gli IBC Dylan ci ha comunicato che aveva firmato per la Vizztone. E ovviamente io stesso, sono stato l’ultimo a fare qualcosa. Annette Holloway e la sua famiglia sono i proprietari del Foxfire, sono afroamericani. Ci hanno supportato al 100%. È  un posto molto grande, forse 80 acri, ci sono capanni, cavalli, due palchi, una campagna bellissima. Organizzano anche concerti e ci ho suonato con la band, è stato divertente.

C’è una forte connessione tra voi, insomma.

Si e quel che mi piace è che quando non ci vediamo da un po’ e poi ci capita di essere allo stesso festival o in una serata insieme…beh allora comincia il divertimento. Siamo in contatto via telefono ma quando ci ritroviamo è  una festa, è bello, siamo tutti ragazzi giovani, facciamo sciocchezze sul palco, non c’è competizione, solo il piacere di stare insieme. Lo dico sempre, siamo una minaccia! Verrà un tempo in cui Buddy Guy, Bobby Rush o Jimmy Duck Holmes non ci saranno più e verranno da noi. Tra cinque o dieci anni vedrete spesso Dylan Triplett o DK Harrell…amiamo questa musica. Ho suonato al locale di Buddy, conosce bene l’area della Louisana da dove provengo. Ho saputo che recentemente non è stato bene, ma ha 87 anni, è in giro da moltissimo tempo, è sempre stato pieno di energia ma forse ora ha bisogno di riposo. Bobby Rush è ancora molto attivo, parliamo regolarmente; so che fa parecchi show acustici, forse è il suo modo di rallentare. Holmes è uno degli ultimi dello stile Bentonia. Dobbiamo dimostrare il nostro apprezzamento e rispetto per loro. Vorrei essere nato 30 o 40 anni prima per poter vedere tutti questi musicisti al loro massimo. Quando ho visto B.B. per la prima volta è stato nel 2013, lo stesso anno in cui è scomparso Bobby Bland. È stato in giugno di quell’anno. Ricordo che qualcuno dopo il concerto chiese a B.B. come stesse Bobby e lui disse, “Bobby sta bene”. E pochi mesi dopo era morto. E poi Little Milton, John Lee Hooker, Earl Hooker… ma non era destino. Perciò l’unico modo in cui possiamo avvicinarci a loro è attraverso la musica, anche se a volte questo non mi basta. Tony Coleman mi racconta grandi storie sui tour che sono divertenti e istruttive e tutto quel che posso dire è “ragazzi, avrei voluto esserci!”. Ho avuto modo di conoscere Walter Riley King, nipote di B.B., siamo diventati buoni amici e quando è scomparso sono stato tra i primi che la sua famiglia ha chiamato per essere uno dei portatori di bara al funerale. Sua sorella o cognata mi ha chiamato per comunicarmelo e io l’ho detto al B.B. King Museum. E  la loro risposta è stata, “come fai a saperlo prima di noi?”. Ciò significa che mi vedevano come importante per la loro famiglia, e sapevano il rispetto che provavo per Walter, una persona splendida, abitava a Nashville. Cerco di restare in contatto per quanto possibile. In special modo, da grande fan e studente di B.B., molti dei suoi musicisti ancora vivi sono diventati amici, Russell Jackson, Tony Coleman, Michael Doster, Reggie Richards, Theodore Arthur Jr, che ha fatto parte anche della band di Bobby Bland. Dico sempre a loro che sono musei ambulanti e quando quel museo chiude, beh chiude per sempre. Dovrebbero scrivere dei memoir, lo dico ogni volta a Tony, riporterebbe tanti coi piedi per terra.

D.K. Harrell

D.K. Harrell foto Gianfranco Skala

E la loro storia è la storia degli afroamericani negli USA.

Lo è ancora oggi…è abbastanza triste il rapporto del blues con la comunità afroamericana. Non è certo così comune com’era trenta o quarant’anni fa. Se pensi anche agli anni Novanta, la “black community” e i “black media” mostravano molta considerazione per gli artisti blues della vecchia generazione. B.B. King è stato ospite un paio di volte in show come The Fresh Prince Of Bel Air (Willy, il principe di Bel Air in italiano ndt), General Hospital o al Cosby Show (I Robinson, in italian ndt). Bisogna riconoscere a quest’ultimo il merito di aver invitato Dizzy Gillespie, Mavis Staples o Joe Williams, che credo abbia interpretato il ruolo del padre di Phylicia Rashad nello show. Mi sembra che oggi ci sia meno considerazione, non come allora in ogni caso. L’unico genere che rende omaggio agli artisti della vecchia generazione è il country e qualche volta la Rock and Roll Hall of Fame. Ci sono i BET Awards, Black Entertainement Television Awards, ma le uniche volte che fanno qualcosa su artisti blues è “in memoriam”, quando qualcuno scompare. Uno degli ultimi grandi del R&B classico cui hanno conferito un Lifetime Achievement è stato, forse, James Brown. Ed è sbagliato! I BET avevano un canale jazz dove passavano Bobby Womack, Al Jarreau, B.B. King per concerti speciali. Ma nessuno di loro ha avuto premi perché i BET sono incentrati su R&B attuale e Hip Hop. La generazione afroamericana avrebbe bisogno di una sculacciata. Non ci sarebbero tutti questi artisti di R&B e Hip Hop se non fosse stato per i grandi del passato che avete sottovalutato. Come giovani artisti neri, e ho visto dibattiti su Facebook con Marquise o Jantavious sull’argomento, non stiamo affatto dicendo che i bianchi non possano suonare il blues. Diciamo solo che sarebbe giusto dare fiori, riconoscimenti, vere possibilità negli Awards, festival e club a questi artisti che sono stati pionieri. Va bene essere amici di Joe Bonamassa o Kenny Wayne Shepherd, ma ci sono molti  altri artisti lì fuori. Dobbiamo anche capire le prospettive dei promoter, ma non chiediamo di essere subito headliner, va bene anche suonar in apertura, basta che sia data una occasione agli artisti neri. E poi, come dico alla band, non sai mai chi ti sta guardando.

È lo stesso per le giovani donne nere.

Si. Vanessa Collier è giovane, intelligente, ha molta dedizione, etica del lavoro…abbiamo tenuto una Young Blues Conference sulla Blues Cruise poche settimane fa e lei parlava proprio di questo. Di come sia una lotta per le giovani donne nel music business. Veniamo tutti sottovalutati. Ma facciamo sul serio. Cerchiamo di far comprendere alla gente che abbiamo i nostri CD e dischi. Persone della generazione diciamo tra i 50 e i 75 anni non capiscono per quanto riguarda la distribuzione della musica, che  tutto è cambiato rispetto al passato, è tutto digitale. Il problema però è che a no arriva lo 0,00001 % dello streaming di una persona, perciò devi avere duecento milioni di streaming per avere una entrata decente. Così non abbiamo altra scelta che dire “hey, comprate per favore in nostri CD e i biglietti dei concerti”. E qui c’è un altro problema, perché nove volte su dieci, i club ti dicono, “ok ti ingaggiamo col tuo gruppo per 1500 dollari e quello che si paga all’ingresso ce lo teniamo noi”. Ma se fanno pagare 15 dollari e vengono 400 persone, beh sono bei soldi, ma noi ce ne torniamo a casa con 1500. Per questo molti artisti preferiscono suonare ai festival. Migliori condizioni. Sarò  onesto, nell’ultimo anno ho suonato in molti più festival che club. Poi in un club mettiamo su 50 persone solo 10 sono interessate alla musica, le altre sono lì per bere qualcosa, ma in un festival è diverso. Sugaray Rayford mi ha spiegato quanto sia buono avere “mailbox money”; la cosa migliore he ti può succedere è scrivere un jingle pubblicitario. Ottieni una percentuale regolare e i soldi ti vengono accreditati direttamente. Lo stesso mi ha raccontato Tony Coleman, ha scritto un jingle per una azienda del golf e ogni volta che lo spot viene trasmesso incassa un assegno con la sua percentuale. È qualcosa che non ti insegnano, ma appunto non è come in passato, non devi per forza essere in tour tutto il tempo. Keith Johnson mi ha detto che Hulu (una piattaforma streaming americana ndt) vuole usare due sue canzoni. Perciò vi dico due cose. La prima è che tutti quelli che vanno in giro a dire che il blues è morto stanno mentendo. La seconda è semplice, pagate i  musicisti. Hubert Sumlin, dopo la morte di Wolf, ha patito per anni. È passato da avere tutti i denti ad averne meno…le storie che ho sentito su di lui. Non lo pagavano quanto chiedeva e parliamo del tizio che ha suonato in tutti i classici di Wolf, “Smokestack Lightnin’” o “Evil”. È dura. Alla fin fine possiamo solo arrivare ad un certo punto prima che la gente faccia i cambiamenti necessari.

 

D.K. Harrell foto Philippe Prétet

Pensi che il successo di Kingfish possa fungere da catalizzatore per te e per altri?

Certo, ma sai nel business c’è anche la regola dell’ “uno alla volta”. Ci può essere solo uno in cima, ogni volta. La gente dice che B.B. e Bobby erano in competizione, ma era lo stesso per Elvis con Richie Valens, Buddy Holly o The Big Bopper…Il business crea la competizione, l’industria funzione così. Ma devi giocare con le carte che hai in mano. Non dipende per forza da te. Io non mi sento in competizione con nessuno, amiamo tutti questa musica…è solo fortuna! Te lo direbbe anche Kingfish oppure prendi Gary Clark Jr, un altro esempio. Molti non lo sanno che lui ha partecipato agli IBC, penso sia stato persino squalificato perché troppo giovane e suonava con una band più vecchia. E poi molti anni dopo ha vinto quattro o cinque Grammy. O Susan Tedeschi, anche lei ha fatto gli IBC è non è arrivata in finale, guarda dov’è ora. Ma non do nulla per scontato, il futuro non è garantito. È triste che qualcuno come Buddy Guy non abbia ricevuto i riconoscimenti dovuti se non dopo i cinquant’anni con “Damn Right I Got The Blues”…ho sentito qualcuno dire che la scomparsa di Stevie Ray Vaughan ha aperto le porte a Buddy. Ma in effetti lo stesso stile di Stevie o di Hendrix, Buddy lo faceva molti anni prima, l’industria allora era ancora più discriminante. Ci proviamo tutti, ma ci sono cose che non possiamo controllare. Non vorrei quello che sgobba come un mulo per 40 anni e all’età di 80 ti dicono, “hey, ecco il tuo Award” e dicono che era ora. Sarebbe ingiusto. Io lo voglio quando sono ancora giovane e all’apice. È sbagliato attendere che qualcuno abbia un piede nella fossa per dargli un premio. Ma è anche vero che la cosa dei premi è bella per venti minuti dopo diventa qualcos’altro, per me la vera gioia è stare sul palco.

Qual è la tua ricetta alla fine, il modo migliore per continuare a essere in questo ambiente?

Posso solo parlare per me stesso, ma se dovessi dare un consiglio, direi restando umile e cogliere le occasione che il tempo che ci è dato su questa terra ci presenta. Circondarsi di persone che ti vogliono bene davvero e che ti insegnino a voler bene a te stesso. Qualsiasi cosa nella vita falla con amore. Un uomo saggio  una volta ha detto, non mi servono le vostre ricchezze per essere orgoglioso di me, fino a che ho la mia vita, la mia famiglia e i miei amici, sono l’uomo più ricco del mondo. A tutti quelli che mirano al top ogni volta, beh ci sono già, ti sei svegliato, non sei malato o in prigione…Prenditi cura di te stesso e stai con persone che tengono a te, per questo vale la pena farlo. Quando suoni per un pubblico che non conosci e vedi i loro volti illuminarsi, beh scelgo questo al posto di un Grammy. La mia famiglia mi supporta sempre e lo stesso per la gente della mia chiesa. Ci sono compagni di scuola che all’epoca non mi rivolgevano la parola e ora mi dicono “DK sono fiero di te”, mi rispettano. Suono in chiesa la domenica talvolta e uno dei bulli del liceo è venuto un paio di mesi fa. Aveva dolori in tutto il corpo, gli ho stretto la mano e gli ho chiesto come stesse. Abbiamo pregato per lui e raccolto fondi per le spese mediche, ora sta meglio e siamo amici, ha persino suonato con me due volte come batterista. La vita è buffa. Tratto i ragazzi della mia band allo stesso modo, c’è affetto e rispetto tra noi. Stessa cosa col mio manager, ci prendiamo cura l’uno dell’altro, per sopravvivere in questo mondo devi avere attorno un team che ti vuole bene e comprende che il tuo stato mentale, emotivo e fisico conta tanto quanto il salire sul palco.

 


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