Il blues in Italia_intervista a Marino Grandi

1982-2022: QUARANT’ANNI DI CULTURA AFROAMERICANA IN CASA NOSTRA

Le seguenti parole, assieme a quelle di collaboratori storici gentilmente disponibili, contribuiscono a raccontare la rivista alla svolta dei suoi “primi” quarant’anni, e anche uno spaccato sullo “stato dell’arte”, il blues in Italia, tra ieri e oggi. Un mondo forse un po’ meno sommerso, grazie all’iniziativa di chi ha mosso la pubblicazione e un po’ l’acque d’intorno, tra chi la musica la fa e chi di ciò ne ha raccontato, con tutti i “pro” e i “contro”. L’onde limacciose lontano dal Mississippi nella nostra provincia musicale italiana mi erano giunte allorché nel 2003 mi accingevo a una tesi di laurea sulla geografia del blues come elemento della cultura afroamericana, in quello che in pochi ricordano proprio come anno del blues, di quando diversi eventi cinematografici sono stati dedicati al centenario di questa musica, dal 1903 in cui suscitò ispirazione su spartito al musicista W.C. Handy. Ma il blues esisteva già da prima, così come l’interesse per questa musica in Italia, con la rivista che, unica da noi, se ne stava già occupando da tempo. Ne contattai il direttore, aggiungendo l’intervista in appendice a quel lavoro, per quanto ci potesse rendere il polso della situazione del blues nel nostro Paese.

In quest’altro anniversario, alla vigilia del 2023, le sue parole sono ancora attuali.


Incontro con  Marino Grandi, direttore della rivista Il Blues, 22/05/2003

di Matteo Fratti

l Blues, trimestrale di cultura musicale, è probabilmente l’unico periodico italiano ad occuparsi da ormai più di vent’anni (ad oggi, quaranta – ndr) di alcuni aspetti della musica e della cultura afroamericane di ieri e di oggi, con specifici interventi mirati a far conoscere le sfumature regionali di un idioma, il panorama del blues sul territorio e la relativa discografia internazionale. Considerando il fatto che un background  blues diretto é praticamente inesistente in Italia, si potrebbe pensare che la sensibilità verso questo tipo di manifestazione artistica derivi in maniera più profonda da quella remota partecipazione agli aspetti culturali americani in generale, cresciuta in Italia con l’immediato dopoguerra (si veda la rivista Musica Jazz, pubblicata dal ’47; il fumetto Tex dal ’48; le traduzioni di alcuni romanzi americani operate fra gli anni ’40 e ’50 per via dell’impegno di gente come Cesare Pavese o Fernanda Pivano; l’America cinematografica di Sergio Leone ). L’interesse per questa forma espressiva, tuttavia, potrebbe essere maturato più specificatamente nel nostro Paese anche con l’avvento del rock’n’roll ed in scia all’influenza che la musica nera ha avuto su di esso, nonché sul rock – blues commerciale degli anni ’60 (vedi il British Blues Boom, per esempio) ma rimanendo nel dettaglio, una realtà marginale. Nella “Enciclopedia Del Blues e Della Musica Nera” dell’Arcana Editrice, si afferma che: “Per un periodo circoscritto fra la fine degli ’80 e i primi ’90 , la situazione del blues in Italia è sembrata più favorevole grazie a una maggior attenzione da parte dei mass media ( spazi sulla stampa non specializzata, presenza di Rai e Videomusic a festival come “Pistoia Blues”, più passaggi di artisti blues in programmi televisivi)”. I motivi della relativa rinascita vengono ricondotti allora al successo di film come “The Blues Brothers”, o all’incidenza di personaggi come Renzo Arbore sulla programmazione televisiva. Un risveglio dell’interesse giovanile a livello internazionale tocca in effetti ancora marginalmente l’Italia di quegli anni, allargando seppur minimamente la grande geografia del blues ad un più frequente utilizzo degli stilemi neri nella stessa musica italiana (senza contare qualche sparuta avvisaglia alla fine degli anni ’70, di interpreti italiani di un blues più autentico, come Guido Toffoletti e Fabio Treves).

La rivista Il Blues vede la luce nei primi anni ’80.

C’è qualcosa che nei contesti accennati potrebbe aver allargato il punto di vista italiano sì da influenzare l’esigenza di una pubblicazione specifica, Il Blues nasceva da interessi indipendenti più direttamente collegati con quest’aspetto culturale afroamericano?

Direi che la passione per la musica afroamericana non è nata direttamente verso quest’aspetto culturale.

È nata piuttosto indirettamente attraverso i musicisti inglesi, e quindi con il fenomeno del British Blues: attraverso quello si è cominciato ad avere in Italia dei dischi che prima era impossibile trovare. Alla fine degli anni ’50, o nei primi anni ’60 le registrazioni originali non erano quasi mai reperibili nel nostro Paese, mentre invece con il fenomeno del British Blues è successo che in molti dischi dei musicisti inglesi c’era scritto il nome dell’autore del brano, e tanto io come altri ci siamo chiesti chi diavolo fossero certi musicisti. Poi abbiamo trovato i primi libri importati (“The Story Of The Blues” di Paul Oliver o “Blues People” di Leroy Jones) e abbiamo capito. Iniziando questo interesse per le registrazioni originali anche i distributori e gli importatori dei dischi hanno cominciato a fare i primi passi in avanti: la Durium, una casa discografica che è ormai fallita, ha cominciato a importare materiale della Chess, e con il materiale della Chess abbiamo scoperto tutto quel blues elettrico che praticamente è stato in quel momento quello di maggior fruizione. Ovviamente c’è chi si è fermato là e chi invece ha proseguito un discorso di ricerca alla rovescia, partendo dai frutti per tornare alle radici.


Il Blues in Italia-foto repertorio con Cooper Terry

Marino Grandi con Gianfranco Skala, Cooper Terry, Alberto Pick e due tecnici del suono di Radio Varese, circa 1975


Nella vostra rivista sono presenti servizi sulla storia e i personaggi che hanno fatto la musica, ricerche sul campo, concerti, recensioni dei dischi e libri sul blues. Cos’è che tramite le vostre pagine viene fatto per una semplice informazione e cosa invece la travalica a favore di una vera e propria promozione culturale in Italia?

L’informazione fondamentalmente è basata sulle recensioni dei dischi, dei concerti, è qualcosa legata all’attualità. La formazione invece è un’altra cosa. Noi riteniamo che la formazione all’interno della nostra rivista sia legata agli articoli monografici, siano essi riservati agli artisti, o sia pure attraverso articoli monografici che abbiamo fatto parecchi numeri fa’ sugli stili regionali: blues del Texas, blues del Mississippi, blues delle Caroline, blues della Virginia. Abbiamo fatto una piccola storia del blues situata nelle singole regioni. Quello è stato qualcosa di culturale, come sono state culturali anche alcune interviste, fatte a personaggi che hanno lasciato una traccia nella storia del blues. Attraverso queste persone, di una certa età, è stato possibile ricostruire il contesto sociale, politico, che queste persone hanno vissuto, che magari fino a qualche tempo fa’ era possibile conoscere solamente tramite i libri di sociologia o di storia. Attraverso la voce di queste persone si è sentito veramente qualcosa di visto e vissuto dall’interno. Con fatica, perché la vita di questi personaggi si sta assottigliando sempre di più, per l’età. Sono un pezzo di storia. Parlare con queste persone è come sfogliare un libro di storia.

Scrivere di blues è un’esigenza volta a tenere viva una tradizione, che è anche un sentimento comune. Esserne i portavoce nel nostro Paese vuol dire porvi uno sguardo da molto lontano, rivisitandone la geografia per mezzo dei dischi recensiti, dei reportage dall’estero sui luoghi dove la musica convive col paesaggio, e dalle esibizioni artistiche ai festival stranieri, oppure significa considerare quali tangibili realtà di blues sul nostro stesso territorio anche festival come Pistoia Blues, Sanremo In Blues, Umbria Jazz, Castel San Pietro In Blues, Rovigo Delta Blues ecc., vetrine  circoscritte  non  soltanto agli  interpreti italiani degni di nota, ma estese soprattutto ai grandi ospiti stranieri ?

I festival sono elementi degni di nota. Ci sono stati parecchi festival interessanti nel nostro Paese, e ci sono anche tuttora. Ma ce ne sono altri che invece hanno finito per tenere solo il nome di blues. Pistoia Blues, ad esempio, negli anni ’80 ha sempre fatto il buon blues. Poi è diventato qualcosa di puramente commerciale in cui il suffisso ha finito soltanto per aumentare la confusione in chi va ad ascoltare la musica di personaggi che sono solo d’entertainment.

Remote percezioni degli stilemi neri nella musica italiana hanno spesso veicolato una rilettura dei paesaggi e delle realtà locali nostrane in chiave di blues. Accenni di tale musica nelle nostre canzoni sono stati associati talvolta, per esempio, a scorci di una Bassa Padana ricondotta tra immagini e testi, a stereotipi rurali da Delta Blues (la slow – life della pianura alluvionale del Mississippi sembra trasporsi in parallelo nella tranquilla vita delle provincie e delle campagne estive del Po, tra afa, umidità, fiume e zanzare, vedi Adelmo “Zucchero” Fornaciari, Luciano Ligabue). Particelle di blues urbano sono state spesso mutuate nella tradizione napoletana, a dilatare incredibilmente i sentimenti del Meridione d’Italia tra povertà e ricchezze espressive, a quelli di un Sud del mondo prossimo anche ad immagini da Sud degli States (vedi Pino Daniele, Edoardo Bennato). Quanto di tutto ciò è possibilmente riscontrabile come evoluzione ai margini del blues, e quanto invece ne risulta così lontano da richiedere che le due realtà vengano scisse in una rilettura critica lontano dagli stereotipi?

Il blues alla fine è penetrato nel nostro orizzonte sonoro, magari in maniera non eclatante, ma lasciando il segno. Forse non a livello nazionale, ma in parte a livello regionale: il discorso di Ligabue e della pianura Padana; Pino Daniele (dei primi tempi soprattutto, poi è andato verso altri orizzonti di una musica mediterranea); Edoardo Bennato (quando ha fatto il personaggio di Joe Sarnataro, accompagnato dai Blues Staff, un gruppo che canta il blues in napoletano, è stata una bella contaminazione. Poi hanno fatto anche un disco, e avevano fatto anche un tour. Bennato con questi ragazzi dei Blue Stuff, avevano fatto veramente qualcosa di originale …). Questo dialetto napoletano applicato sulle sonorità tipicamente blues è stata una contaminazione secondo me perfettamente riuscita, e le contaminazioni secondo me sono utili in ambito musicale, perché riescono a svecchiare certe cose e ad introdurre degli stilemi che possono essere interessanti. È chiaro che non tutte poi funzionano, però all’inizio ogni contaminazione va guardata con una certa simpatia. Solo lo sforzo di cercare di proporre qualcosa di nuovo, per me merita attenzione. Ci si rende conto che alcune sperimentazioni siano più che altro cercate ma non volute, e queste sono quelle che hanno la durata minore. Poi la realtà, il tempo … sono giudici senza pietà: solo le cose valide durano nel tempo. Lo si vede nella musica, nell’arte, non c’è scampo alle cose approssimative, fatte così tanto per fare.


Marino Grandi e Luciana al Chicago Blues Festival

Marino Grandi e Luciana Salada al Chicago Blues Festival(Foto Davide Grandi)


Cosa ha mosso la pubblicazione de’ Il Blues in un contesto minore come quello italiano?

Non è desiderio di fare proseliti: non vogliamo convincere gli altri che la musica che noi amiamo è la migliore, vorremmo solo che ascoltassero. Ci poniamo un po’ come dei messaggeri, cioè vorremmo portare il messaggio del blues, far conoscere alla gente che esiste questa musica. Poi starà ad ognuno degli ascoltatori o delle persone sentire e dire sì, mi piace o non mi piace. Vorremmo soltanto che la gente avesse la possibilità di ascoltare la musica che noi amiamo. Perché, quello che secondo noi manca ancora oggi è una promozione della musica blues. Non tutti faranno un lavoro di ricerca a ritroso, però bisogna perlomeno considerare che esistono altre situazioni (che se si va ad analizzare, sono quelle che, diventate poi elettriche, hanno portato  al rock).

Qual è la tiratura delle altre riviste straniere dedicate all’argomento ed il relativo interesse nel panorama europeo?

Le altre riviste, soprattutto quelle inglesi (“Blues & Rhythm” e “Juke Blues”) hanno una tiratura sicuramente superiore alla nostra. La nostra è di millecinquecento copie, con punte maggiori soprattutto in Piemonte, Lombardia Veneto ed Emilia. Per quanto riguarda le prime, hanno il pregio di essere scritte in inglese, che in Europa oggi è lingua diffusa. Noi inevitabilmente siamo un po’ limitati dall’uso della nostra lingua. Poi ce n’è una francese che si chiama “Soul Bag”, che ha il vantaggio di avere supporti finanziari superiori ai nostri. Ma l’interesse per il blues non ha certo una tiratura commerciale!

E in quello americano? Il blues nasce negli States agli albori del secolo, e dagli anni Cinquanta influenza gran parte della moderna musica bianca (sebbene già da allora gran parte del country – blues non fosse più una musica propriamente commerciale, rimpiazzato dal più moderno blues elettrico e rhythm & blues). Oggi molti giovani di colore sono dediti al rap, e nuove promesse del blues sembrano essere una minoranza bianca (vedi i più recenti Jonny Lang, Kenny Wayne Shepherd, Eric Sardinas, Popa Chubby). L’Italia riflette in un certo qual modo una tendenza internazionale?

Sappi che anche in America c’era una rivista interessante, che era “Blues Access”, e ha chiuso. Ce n’erano tre di buon livello e sono rimaste due: una è “Living Blues”, che è la più antica rivista americana (del 1970) e adesso è in mano all’Università del Mississippi. L’altra è “Blues Revue”. Sono le due americane di maggior prestigio, con buona distribuzione, per quanto anche loro abbiano problemi di distribuzione e di costi, e non c’è una tiratura commerciale. E’ una tendenza generale che riflette anche l’Italia, ma è soprattutto in America che i giovani neri americani o fanno hip – hop, o fanno rap, e il blues è in secondo o terzo piano. Su dieci dischi nuovi che escono del genere, possiamo dire che sette sono di artisti bianchi, e tre sono di neri. E questo perché la maggior parte del pubblico che acquista sono bianchi, la maggior parte dei proprietari di case discografiche sono bianchi, la maggior parte dei proprietari di radio private sono bianchi… E’ chiaro che a questo punto venga proposta la musica dei bianchi. I neri sono una piccola minoranza, ed è un peccato, perché ci sono ancora degli ottimi personaggi e non hanno la possibilità di incidere. Anche perché ancora oggi c’è la tendenza dei proprietari delle case discografiche di appropriarsi dei diritti musicali delle varie canzoni. L’industria è in mano ai bianchi e inevitabilmente anche la produzione discografica punta fondamentalmente su artisti bianchi, perché gli acquirenti sono i bianchi. Le radici del blues sono un po’ rinnegate dai giovani neri americani perché sono forse un momento negativo del loro passato, e non ne vogliono assolutamente sentir parlare. Ma non parlare è un conto, ignorare è un altro.

È il contesto che ha determinato le vostre scelte editoriali (pubblicazione trimestrale, distribuzione limitata) o forse avreste conservato ugualmente un target elitario?

No, forse non lo avremmo conservato. Il contesto è l’impossibilità da parte nostra, di andare incontro a un pubblico più ampio. Tutto rimane legato solamente alla passione delle persone che lo fanno.

Il Blues si mantiene sempre intorno alla stessa tiratura o subisce le fluttuazioni della medio – bassa cultura musicale nazionale? (Per fare un esempio, il Festival di Sanremo, intorno a cui ruota gran parte del mercato discografico italiano, è stato vinto nell’edizione 2003 da una terna di canzoni di forte ispirazione musicale nera: le influenze soul della cantante Alexia, quelle blues del chitarrista cantante Alex Britti o jazz del cantautore Sergio Cammarriere. Ciò ha influito in qualche modo sulle vostre vendite?)

Non ha influito. Lo avremmo voluto. Ma il festival di Sanremo è come quando capita di andare a un concerto blues: trovi un sacco di gente, ma se vanno diecimila persone ad un concerto blues ed escono soddisfatte, vorrei sapere quanti il giorno dopo vanno a comprare un disco di blues. Pochissimi, forse gli stessi che lo compravano già anche prima. Purtroppo, il fenomeno musicale, il concerto, non è un trade – union sufficiente a indurre la gente ad avvicinarsi a quella musica. E non c’è questo grande spostamento d’interesse verso la musica blues.

Il blues è una passione: la vostra rivista esula allora in tal senso da gran parte dei vincoli commerciali cui sottostanno altre pubblicazioni?

Si, perché come passione sta al di sopra di ogni cosa, ed ogni collaboratore ha libertà di dare il suo parere sui prodotti che ascolta. Ovviamente ci dev’essere una documentazione relativa a quanto scritto, ma non abbiamo vincoli commerciali di nessun tipo.

Il blues è memoria: la vostra rivista vuole in un certo qual modo conservare l’identità e la storia di un popolo, sensibilizzando la rivalutazione di un vecchio patrimonio poco conosciuto in Italia?

Bisogna sapere che l’origine di quasi tutta la musica che noi oggi consumiamo, viene da là. Si vuole una testimonianza di quello che è accaduto, di come si è evoluta la musica in questi anni. Nient’altro. Solo far conoscere affinché si possa scegliere.

C’è in un certo senso l’intento di offrire futuro al blues, tenendo viva anche ai margini una storia che è anche storia umana, allargandone pertanto la stessa geografia attuale e la tradizione?

Il blues può allargare le sue possibilità di ampliamento, andando incontro anche a delle ibridazioni con altre musiche, sempre cercando di conservare il suo spirito. 

Negli anni Il Blues è cresciuto anche grazie all’operatività culturale dei molti che, anche in modo pioneristico, hanno cooperato alla rivista come redattori, collaboratori e volontari, accomunati da un’unica grande passione. Giornalisti, musicisti, amici e cultori, promotori in qualche modo attivi nel far conoscere anche in Italia, il blues e i suoi valori. A loro le seguenti domande, e la suggestione di un ricordo.

one (1) – Come è stato e come si è sviluppato il tuo rapporto con la rivista?

Two (2) – Quale pensi sia stato il contributo della rivista al mondo del blues italiano e non solo?

& Three For Time (3) – Che effetto ti fa la chiusura della rivista dopo 40 anni di attività?

Hanno contribuito (in ordine alfabetico): Antonio Avalle; Marco Ballestracci; Marco Basso; Silvano Brambilla; Paolo Cagnoni; Andreino Cocco; Max De Bernardi; Edoardo Fassio; Carlo Gerelli; Enrico Lazzeri; Dario Lombardo; Michele Lotta; Luca Lupoli; Roberto Menabò; Luigi Monge; Angelo Morini, Gianandrea Pasquinelli; Marco Pastonesi; Maurizio Pol; Gianfranco Skala; Renato Tonelli; Fabio Treves.

Questa storia è anche la loro.


Keepin' The Blues Alive Award Il Blues


Antonio Avalle

1. Il percorso sicuramente più facile: da lettore ho raggiunto Marino ed è stato epifanico. Ci siamo conosciuti (intorno al 2000). L’idea condivisa era quella di poter offrire il mio contributo su esplorazioni di sonorità che rispettassero e rivisitassero la tradizione blues con rispetto. Porto nel cuore idee come la condivisione di artisti come Elliott Sharp e un novello Ian Siegal.

2. A livello internazionale ha sicuramente offerto l’occasione di poter rendere visibili i nostri talenti e distinguersi sul mercato dell’informazione di qualità soprattutto in Europa.

3. La fine di un ciclo con il passaggio al supporto digitale era auspicabile. La musica Blues rischia e rischierà di diventare ulteriormente di nicchia. La rivista, soprattutto nel formato cartaceo, aveva potenziato la sensibilità oggi lesa da un mancato passaggio generazionale e dalla diffusione di mezzi di supporto “usa e getta” (ergo non si compra più musica si sente sempre di più e si ascolta di meno).

Marco Ballestracci

1. Chi m’introdusse a “Il Blues” fu Raffaele Bisson e già questo apre un mare di emozioni. Fu grazie a Raffaele che entrai in contatto con Marino Grandi. Direi che, per quanto mi riguarda, fu un momento fatale. Fu l’ideazione del primo articolo che, ricordo bene, era dedicato a “Wicked Grin” di John Hammond che accese la luce su una nuova dimensione della mia scrittura. Credo che la collaborazione con “Il Blues” sia stata fondamentale per ciò che oggi è la mia attività: sia nella scrittura che nello sviluppo orale delle storie che racconto negli spettacoli. Senza la nuova costruzione mentale che è scaturita quando cercavo d’escogitare un modo per raccontare le storie per la rivista, credo proprio che non sarebbe mai cominciata la mia attività letteraria. In più la collaborazione con “Il Blues” m’ha fatto comprendere subito che ero più portato per scrivere e raccontare storie che per suonare. E non è per nulla poco.

2. È una risposta molto difficile da dare. Per come l’ho conosciuto io il mondo del blues italiano è molto individualista, nonostante gli appelli all’unità e alla creazione d’un movimento, se vogliamo, di mutuo aiuto, così continua a rimanere. Non è né un bene, né un male. È così. Perciò è difficile pensare che una rivista possa influenzare i comportamenti d’un movimento fondamentalmente anarchico. D’altro canto, ricordo a suo tempo un certo avvilimento per la scarsa diffusione de “Il Blues” tra i musicisti che praticavano la disciplina. Io, per quanto mi riguarda, l’ho percepita importante e, come dicevo prima, sono in un certo senso debitore di stimoli che m’hanno portato altrove. In un bell’altrove.

3. Sta purtroppo nell’ordine delle cose, soprattutto perchè era legata alla passione di Marino, di Silvano, almeno fin quando ho scritto io, e poi di altre persone in seguito. Gestire una rivista come “Il Blues”, lo ricordo bene, non era un gioco da ragazzi. Era estenuante ed è possibile sostenerla finché la passione riesce a non far traboccare il vaso. L’unica sensazione che posso provare è un’ammirazione profonda per chi l’ha fatta funzionare per 40 anni, immaginando tutte le traversie superate in così tanto tempo. Comunque, per quanto poco possa contare, in tutto ciò che scrivo oggi – sui libri, sugli inserti culturali, sulle riviste – c’è all’inizio l’indimenticabile scintilla del giorno in cui scrissi nel primo articolo per “Il Blues” su John Hammond, Tom Waits e Howlin’ Wolf. Conto di scrivere ancora per un po’ di anni e di portarmi dietro sempre quella scintilla.

Marco Basso

1. Il mio rapporto è iniziato quando riuscii ad avere in una mia trasmissione a radio Rai Marino Grandi. Non ricordo bene l’anno e neppure quale trasmissione fosse. Penso “Stereodrome” o “Planet Rock” per Rai Radiostereo Uno. Immagino a metà degli anni 80. Non mi sembrava vero di avere in carne d’ossa quello che per me era un mito di passione e competenza. Ci conoscemmo e subito scatto una scintilla di reciproca simpatia e Marino mi propose di scrivere anche perchè curavo una parte della trasmissione dedicata proprio al blues.

2. Credo enorme Innanzitutto per la diffusione di questo genere musicale che proprio in quegli anni conosceva un momento di straordinaria visibilità con una serie di festival che nascevano ovunque in Italia e all’estero. La rivista diventa in breve tempo il riferimento per il pubblico, per gli artisti grazie alla competenza e conoscenza di chi ci scriveva.

3. Molta impressione: perché è chiaramente il segno che è tramontata un’epoca e che le cose attorno alla musica sono cambiate radicalmente così come nell’ascolto anche nella fruizione della musica. Il blues ha sofferto già da anni di una certa visibilità, soprattutto in Italia. I ragazzi sono sempre più abituati a un ascolto distratto, poco consapevole, per nulla storicizzato. Troppo spesso la musica che si ascolta è tappezzeria sonora o frutto di una moda collettiva. Quando è nata la rivista “Il Blues” il pubblico aveva sete di notizie e era un pubblico militante che seguiva gruppi e concerti quasi con disciplina maniacale e desiderava nutrirsi di musica e di notizie relative alla musica. Si vendevano moltissime copie di diverse riviste specializzate nella musica non classica. Oggi quel mondo è totalmente scomparso. Posso dire che mi intristisce tanto? Ma la visione più chiara di questa crisi è data dal fatto che oggi non esiste un supporto per veicolare la musica se non anonimi file che appaiono di nessun valore ai più, né in termini artistici e tantomeno economici

Silvano Brambilla

1. Il mio rapporto con la Rivista “Il Blues”, si è concretizzato nel tempo. Prima della sua nascita era già nato un rapporto con Marino Grandi, era la fine degli anni Settanta, lui ancora al Mucchio Selvaggio ed io che iniziavo a stare davanti ad un microfono in una radio libera per un programma di blues e dintorni. Quando nacque “Il Blues”, dicembre 1982, ero fra gli abbonati e dal 1989, dopo aver lasciato una Rivista concorrenziale, iniziai una collaborazione che nel tempo, all’insegna non solo della passione per la musica, il rapporto con Marino e con la moglie Luciana si è ulteriormente fatto più fitto. È stato un bel lungo momento e uno scambio musicale/culturale che mi ha accompagnato nella crescita, che a mia volta ho riversato, spero, anche nella crescita della Rivista.

2. Non è mia intenzione scusare qualche difetto, qualche svista, qualche errore, ma non va dimenticato però che la Rivista “Il Blues” era tenuta in vita da appassionati e volontari, alcuni dei quali sottraeva tempo ad affetti, impegni personali, ore di sonno, per cercare di contribuire in maniera coerente alla divulgazione della musica black, divulgazione che ha trovato apprezzamenti sia all’estero, anche da importanti personalità del mondo blues che, piano piano anche in Italia divenendo un obbligato punto di riferimento non solo per addetti ai lavori e appassionati del settore. Quando dunque sentivo dire da qualcuno da dentro che “Il Blues” è “una piccola Rivista”, mi irrigidivo, piccola sì per la gestione familiare e amicale, ma grande per quello che ha fatto.

3. Personalmente ero preparato, in sede di redazione si era iniziato a parlarne. Le intenzioni del Direttore Marino Grandi (pur con il trasloco da cartaceo a online nel 2013 per un tentativo di stare al passo coi tempi e per l’acquisizione, mancata per una serie di fattori, di coinvolgere giovani appassionati/lettori), erano quelle che una volta raggiunta la soglia dei quarant’anni di ininterrotta pubblicazione, con l’ultimo numero, Dicembre 2022, sarebbe arrivato il momento di scrivere la parola fine, di una avventura che, si è d’accordo o meno, ripeto, ha segnato la storia della musica blues soprattutto in Italia, e anche all’estero.

Paolo Cagnoni

1. Ho iniziato ad ascoltare il blues per caso, comprando un vecchio disco di registrazioni sul campo effettuate in Louisiana in un noto negozio milanese. Si sentivano fruscii e urla di bambini in sottofondo mentre personaggi dimenticati cantavano, accompagnandosi solo con voce e strumento, canzoni misteriose e profonde. La maggior parte delle persone avrebbe accantonato l’LP nella sezione “curiosità bizzarre”, per me invece è’ stato un immediato colpo di fulmine. Una sera, un paio di anni dopo, ero ad ascoltare un concerto al Samoa Blues Club, altro ricordo di una Milano che non c’è più, e a sorpresa è entrato quello che per me era una figura mitologica: Marino Grandi, il direttore del Blues! Così mi sono presentato e gli ho chiesto, timidamente, di poter collaborare con la rivista. È iniziata così una delle avventure della vita che ricordo con maggior piacere e nostalgia e che è durata per molto tempo. E che avrebbe bisogno di ben altro spazio per essere raccontata.

2. Il contributo della rivista alla diffusione del Blues in Italia è stato fondamentale. Non solo per aver raccontato un mondo affascinante e la sua storia, ma anche per le numerose iniziative svolte sul territorio, per il senso di appartenenza che ha generato negli appassionati. Ed è stata importante anche per la diffusione del blues italiano, cresciuto negli anni e spesso sottovalutato nonostante la presenza di artisti di valore. Credo che se il Cd con le cover di Robert Johnson registrato da Francesco Piu e dalla sua band fosse stato inciso da un americano sarebbe diventato una hit mondiale. Stesso discorso per il fantastico Cd mississippiano di Angelo Rossi, per fare solo due esempi. Ma così va il mondo, e anche per questo la passione di chi suona e scrive di questa musica in Italia va considerata con ancora più rispetto e gratitudine. Io stesso, grazie a questo percorso, ho deciso di comporre testi e prodotto Cd insieme a musicisti che non smetterò mai di ringraziare per le emozioni vissute insieme. Senza gli insegnamenti degli amici del Blues non sarebbe stato possibile.

3. Due sensazioni su tutte: l’orgoglio di avere partecipato a lungo a questa fantastica avventura e la malinconia per un mondo sano, ruspante, passionale che sembra spegnersi nell’orgia disumanizzante della tecnologia. “Il Blues” è stato per me una famiglia e una scuola, e di questo voglio ringraziare tutti, a partire da Luciana e Marino Grandi, l’amico Silvano Brambilla, sino ad arrivare alle “nuove leve” Davide Grandi, Antonio Avalle, Matteo Bossi e tanti altri che non posso citare per motivi di spazio. Grazie a tutti, con la consapevolezza che ciò che abbiamo fatto e vissuto resterà sempre nel profondo dell’anima, insieme ai blues che continueranno a scandire le nostre giornate.

Andreino Cocco

1. Folgorante e affascinato dalle fotografie di un mondo nuovo. Raffaele Bisson mi introdusse nel nuovo mondo di questa grande rivista e dei suoi curatori.

2. Credo di un interesse primario per l’Italia e il veneto per ciò che mi riguarda, ogni 3 mesi eravamo in attesa della busta marrone chiaro

3. Un dispiacere sentire e vedere scritti nero su bianco che chiude questa fonte di risorse per la conoscenza del blues.

Max De Bernardi

1. Il mio rapporto con la rivista è sempre stato molto “onesto e “diretto” diciamo così; mi ricordo che”conoscendo” anche personalmente il Direttore ed alcuni collaboratori capitava che quando ci incontravamo a qualche concerto discutessi con loro su alcuni argomenti trattati sulla rivista. Non sempre erano impressioni positive ma credo ci sia sempre stato un onesto e collaborativo scambio di opinioni.

2. Credo che la rivista abbia contribuito in maniera massiccia alla diffusione del blues in Italia soprattutto nei primi anni 80 quando è nata. Il confronto era duro con le altre testate specializzate in musica nera, specialmente di lingua inglese, ma credo se la sia cavata sempre egregiamente. Ricordo con piacere alcuni articoli sul pre-war blues che non era di certo il genere più conosciuto in Italia negli anni 80….

3. Purtroppo mi fa il solito effetto che i tempi sono definitivamente cambiati in peggio in tutti i sensi, mi è giunta voce che anche Buscemi Dischi di Milano chiuderà a breve ed anche questo è uno specchio “sporco” dei tempi mi viene da dire. Non voglio cadere nella trappola della retorica nostalgica ma purtroppo non vedo nei “tempi moderni” lo stesso interesse nella musica come forma di cultura viva e parte della vita di tutti i giorni come poteva esserlo anni fa. È comunque un altro tassello di un passato che ci abbandona sempre di più aimè…

Edoardo Fassio

1. Sono entrato in contatto dopo aver ricevuto una telefonata da Marino nel 1985, agli albori della mia esperienza di blue-jay, ovvero di programmatore e conduttore radiofonico dedicato al blues. Il mio primo apporto alla rivista – senza firma – fu il testo e la grafica di un’inserzione per un negozio di dischi che ebbe vita breve. Dal numero 16, del settembre 1986, la collaborazione fu regolare e assidua; durò vent’anni, con un totale di 255 articoli, recensioni e interviste fino al n. 121, l’ultimo in veste cartacea.

2. L’effetto è stato incalcolabile, per una pubblicazione disponibile solo su abbonamento, la cui esistenza è stata legata soprattutto al passaparola. Tenace punto di riferimento in patria e nel Vecchio Continente per un paio di generazioni di innamorati di una musica considerata di nicchia, è giunta a ricevere a Memphis (per antonomasia Home of the Blues!) il prestigioso riconoscimento Keeping the Blues Alive.

3. L’effetto è stato incalcolabile, per una pubblicazione disponibile solo su abbonamento, la cui esistenza è stata legata soprattutto al passaparola. Tenace punto di riferimento in patria e nel Vecchio Continente per un paio di generazioni di innamorati di una musica considerata di nicchia, è giunta a ricevere a Memphis (per antonomasia Home of the Blues!) il prestigioso riconoscimento Keeping the Blues Alive.

Carlo Gerelli

1. Nel 1982 ho fatto parte del nucleo fondatore del Blues: ai tempi conducevo insieme con Gianni Parmigiani un programma radiofonico sul Blues a Radio Regione, in quella che era la sede del quotidiano L’Unità in viale Fulvio Testi a Milano. Prima trasmettevamo da via Moscova e poi ci saremmo trasferiti in via Bertini. Coordinatore della sede di Milano di Radio Regione era Daniele Biacchessi. Ebbene una sera appena finita la trasmissione che andava in diretta ci siamo sentiti chiamare al telefono da uno che si era qualificato come Marino Grandi (lo conoscevamo ma solo di nome), che esprimeva apprezzamento per quello che facevamo e ci proponeva, nel suo modo molto sincero e diretto di venire alla prima riunione per la fondazione di una rivista sul Blues che avrebbe visto la luce a breve scadenza. In quella prima riunione, nella casa di Marino in viale Tunisia, ci andammo Gianni e io, molto emozionati (avevamo 26 anni io e 25 Gianni), trovandoci di fronte oltre a Marino e Luciana un gruppo di quelli che erano i riferimenti per il blues almeno nel Nord Italia: Fabio Treves, Marco Pastonesi, Gianfranco Scala, Roberto Caselli, Gianni Del Savio etc, e tanti altri che non ricordo. Questo è stato l’inizio, e la nostra prima recensione fu su un disco di Clifton Chenier, alla quale ne sono seguite tante altre, e poi concerti, interviste, festival etc. Memorabili per noi resteranno le missioni al Festival Jazz dell’Aja del 1985, a due edizioni del Festival di Montreux (1984 e 1986), una con l’intervista a Buddy Guy, e poi la prima intervista al Ciak di Milano a Taj Mahal, poi quelle a Louisiana Red, Luther Allison, John Hammond jr, etc, le spedizioni a Imola per vedere John Lee Hooker, o a Maranello per il concerto di Junior Wells (preceduto da una cena altrettanto memorabile).

2. Di sicuro la rivista, sia nella versione cartacea che in quella web, è stato un punto di riferimento per gli appassionati del genere, anche se un po’ come il genere stesso forse non hai mai “galleggiato” al livello dei mass media nazionali. Il che non è mai stato necessariamente un male, anche perché nel corso di quasi 40 anni ha mantenuto sempre e col massimo rigore la sua indipendenza, sia dal lato musicale che da quello, diciamo così, ideologico. Cosa dovuta in primis al tipo di gestione “familiare” che i Grandi sono riusciti a portare avanti, con enorme passione e competenza

3. Di sicuro è un colpo, anche perché, nonostante ultimamente non abbia quasi più dato il mio contributo, mi ero abituato a vivere con l’idea che “Il Blues” come “entità”, rima come rivista poi in forma di webzine fosse un qualcosa di indistruttibile, di eterno. Ma ovviamente come tutte le manifestazioni umane ha avuto un inizio e avrà una fine, anche perché posso benissimo immaginare che portare avanti un’impresa di questo genere costi fatica, impegno, con poche soddisfazioni, e anche con tutta la passione che si può avere prima o poi ci si stanca, anche perché i famosi “4 gatti” del logo sono sempre quelli … Mi auguro solo che in qualche modo un’emanazione di questa entità, magari anche solo in forma di una pagina web meno strutturata di una rivista, possa sopravvivere, ospitando di tanto in tanto recensioni di dischi o concerti, commenti o anche solo fotografie.

Enrico Lazzeri

1. Il mio rapporto con la rivista nacque ai tempi del Buscadero perché Marino mi conobbe tramite alcune recensioni che facevo per quel giornale e mi chiese se mi avrebbe fatto piacere collaborare visto che sapeva che consideravo il Pre War Blues la base di tutta la musica Pop( – olare) moderna.

2. La Rivista “Il Blues” ha avuto in primis un grande ruolo cultuale che ha travalicato il mondo degli stretti appassionati o addetti ai lavori. Pertanto, possiamo considerarla un patrimonio che rimarrà nel tempo e per i posteri.

3. Mi sorprende ma fino ad un certo punto, pur provando enorme tristezza, perché oggi viviamo in un mondo veloce ed impersonale ed “Il Blues” è la completa antitesi rispetto a questo modus vivendi.

Dario Lombardo

1. Ho conosciuto la rivista nei primi anni della sua attività. Nei primi anni ‘80 ero già attivo musicalmente ed avevo ormai scelto di voler suonare il Blues. È del 1982 l’inizio della mia collaborazione con Giancarlo Crea, quindi è da lì in poi che si è verificato il primo contatto. È da allora che si è sviluppata l’attenzione, che è nato il rapporto, sempre positivo, con la rivista: prima come semplice lettore (dal n° 1, che conservo gelosamente) e poi, soprattutto a partire dal 1984, come musicista che fruiva anche delle possibilità offerte da un mezzo che arrivava nelle case di chi poteva essere interessato alla propria musica. Quindi ricordo bene il supporto dato dalla rivista alle varie fasi del mio lavoro e le occasioni procurate, i contatti ottenuti tramite “Il Blues”. Prima coi Blues Shakers ed Arthur Miles, poi con Model – T Boogie ed infine con la Blues Gang, la rivista è sempre stata al mio fianco. Ho cercato di supportarla come potevo, talora abbonandomi e talora pubblicando spazi pubblicitari della Blues Gang. Ho anche scritto qualcosa, ogni tanto.

2. La rivista nasce nel 1982: in quegli anni non era facile ottenere informazioni, notizie, dischi. Tutto era più complicato, il blues non era musica nota in Italia. Se ancora adesso è musica di nicchia, figuriamoci allora. Avere un periodico che approfondisse, indagasse, era fondamentale, e lo rimane oggi, pur nella diversa situazione, nel differente modo di ottenere e recepire le informazioni. Il blues italiano ha ottenuto una voce, cosa importantissima in anni in cui non c’erano web, siti personali e social con cui promuoversi. Gli addetti ai lavori, chi aveva un club o chi organizzava un festival, leggevano la rivista o si confrontavano con i redattori per sapere chi potevano chiamare a suonare. Stesso discorso per il blues non italiano: interpreti poco noti ai più hanno ottenuto quella visibilità che altrimenti non avrebbero avuto. Insomma, la rivista è stata tramite fondamentale di diffusione di una cultura e di una musica che altrimenti avrebbero avuto molte difficoltà in più nel farsi conoscere. Ancora, è stato punto catalizzatore, aggregante, di persone che avevano gli stessi interessi ma che non avrebbero potuto trovarsi in altro modo.

3. Il tempo ci ha abituato alle fini: delle persone, delle cose. In questi quarant’anni abbiamo avuto tanto ma abbiamo anche perso tanto. Penso alle persone che abbiamo perduto: tra i musicisti, e parlando di quelli della mia famiglia musicale, penso a Phil Guy, Massimo Pavin, Roberto Berlini, Marty Sammon. Purtroppo, ce ne son tanti altri. Persone incontrate tramite la musica, e con cui si è lavorato, vissuto, riso, pianto grazie alla musica. Per cui si è suonato, organizzatori o pubblico. La rivista è stata parte di tutto questo, ne è stata a volte il collante: anche se ci si è abituati alle perdite, questa punge, stupisce e fa male, soprattutto in un momento in cui le certezze dei risultati ottenuti, dei diritti acquisiti in molti campi da tutti, sembrano essere pericolosamente messe in dubbio. Un momento in cui tutte le voci sono più che mai necessarie. Grazie per aver supportato il nostro lavoro in questi quarant’anni.



Michele Lotta

1. È stato un rapporto che mi ha dato visibilità. Ho recensito il festival di Pistoia dal 1990 al 1995 oltre ad altre pubblicazioni, nel 1989 ho collaborato come fotografo.

2. Il contributo è stato fondamentale e senza concorrenza.

3. Una grande tristezza. Un’epoca che si chiude.

Luca Lupoli

1. Ho conosciuto il fondatore della rivista, Marino Grandi, a fine anni 70, quando già mi occupavo di Blues, soprattutto attraverso una trasmissione radiofonica e un mio gruppo musicale. Quindi è stato abbastanza normale comiciare a collaborare con la rivista che era, e credo sia ancora, un unicum, o quasi, nel panorama della stampa musicale. Infatti, la maggior parte delle pubblicazioni trattavano di differenti stili musicali. Non finirò mai di ringraziare non solo Marino Grandi, un Maestro per me, ma anche i “vecchi” collaboratori della rivista che mi hanno aiutato ad espandere la mia passione, a riempire i miei tanti vuoti.

2. FONDAMENTALE, scritto tutto maiuscolo. Per due ragioni. La prima è che, nonostante la scarsa diffusione, la rivista diventò subito autorevole, autorevolezza data dalla qualità della pubblicazione, una specie di timbro messo su artisti e dischi, un giudizio difficilmente appellabile. A lungo termine, questo ha portato forse a qualche errore di valutazione, un rischio che non si poteva prevedere. La seconda ragione è che “Il Blues” si iscrisse automaticamente a quelle riviste europee, da “Soul Bag” a “Jefferson”, senza nominare gl’inglesi, che hanno largamente promosso le fortune del Blues in Europa, essenziali per la sua sopravvivenza. Infatti, la popolarità del Blues in Europa si è riverberata nel continente Nord-Americano, specialmente negli anni della crisi del Blues e musiche affini.

3. Ovviamente da un lato c’è la sensazione della fine di un’epoca, che può portare solo malinconia e rimpianto. Ma in questa epoca c’è anche il forte ridimensionamento della comunicazione scritta, come l’abbiamo vissuta fino ad ora. Oggi con Internet, c’e’ bisogno di opinioni piu’ che di indicazioni. Le recensioni, le interviste, così come le abbiamo concepite nel secolo scorso sono destinate a scomparire. Todo Cambia. Dall’altro lato mi auguro che “Il Blues” sopravviva magari in una veste differente, che so, un canale su YouTube. Certo anche il canale di YouTube pare un’idea un po’ stantia, però credo che la voglia di continuare come se nulla fosse, in barba al tempo che passa inesorabile, sia tanta.

Angelo Morini

1. Il mio incontro con la rivista non è stato casuale, in quanto i primissimi numeri di allora (’82-’83) erano al tempo già stati pubblicati. E per me è stato facile e consequenziale avvicinarmi ad esso visto che provenivo dalle precedenti letture dei vari “Ciao 2001” e “Il Mucchio Selvaggio”. Chi non si ricorda più di quei begli spazi riservati al nostro direttore Marino sulle pagine del “Mucchio”. Credo, anzi ne sono certo, che tanti tra di noi abbiano iniziato così questa passione. Perciò il passo successivo è stato breve. È bastato l’incontro durante un concerto estivo con lo stesso Marino, che sapeva metterti subito a tuo agio, per coinvolgerti con entusiasmo ad una collaborazione che, se da un lato, mi faceva toccare il cielo con un dito dall’altro ero consapevole che ‘di scrivere’ non ero portato. Finché si trattava di battere a macchina una o due recensioni per volta (come agli inizi) mi barcamenavo alquanto; ma poi come succede spesso, quando l’appetito vien mangiando, non ci si accontenta mai e si vuol fare sempre di più e così si scoppia. Ho esagerato e me ne dispiaccio! Questo è come si è sviluppato il mio rapporto/amore con la rivista.

2. FONDAMENTALE! Una vetrina, un punto di riferimento per tutti gli appassionati “veri” di questo genere musicale. Una guida ‘essenziale’ per coloro i quali, siano essi musicisti di professione e non, che con scambi di opinioni o attraverso luoghi d’incontro musicali potevano accedere continuamente ad informazioni e novità. E poi, che bello poter apparire (quando accadeva) sulle pagine del più prestigioso “Blues Review” del mondo. E non esagero. Unico neo, che questa forma d’arte continui ad essere relegata ancora ad una èlite.

3. Gli anni trascorsi sono tanti. E questo è già di per sé un merito. Soprattutto per l’impegno non da poco che ha dovuto comportare. Un lavoro ‘immane’. Nonostante ciò, la sua chiusura rattrista perché, come dicevo prima, è un pezzo d’arte che scompare, ed io che ne ho molto apprezzato il cartaceo, finché è durato, alla sua fine non riesco a immaginare

Roberto Menabò

1. Il mio rapporto con la rivista risale al primo numero. Ero già un innamorato del blues e cercavo come un affamato onnivoro tutto ciò che riguardava la mia musica del cuore, soprattutto in italiano. Io abitavo in provincia e non avevo contatti con nessuno se non le piccole e artigianali pubblicazioni, tra cui una fanzine Blues Power e poi, trovato credo in qualche negozio di dischi di Torino eccolo: il primo numero della rivista. Me ne innamorai subito, c’erano i nomi e i dischi di musicisti che non condividevo con nessuno. A quel tempo stavo preparando anche la mia tesi sul blues rurale e allora presi coraggio e un poco emozionato telefonai a Marino per chiedere se potessi collaborare. Il viaggio in treno a Milano mi sembrava su un Panama Limited. Da quell’incontro, che ricordo ancora piacevole e familiare, nacque il primo articolo su Charlie Patton e poi altri ancora per diversi anni.

2. Beh, il contributo della rivista, fino all’avvento del web e dei social è stato fondamentale sia perché riusciva a tenere in contatto una lunga schiera di appassionati lungo tutta la penisola e arricchiva di notizie il mondo del blues…

3. Tristezza, e che altro!

Luigi Monge

1. Non credo sia un mistero che il mio rapporto con la rivista sia stato ad alti e bassi. Ho sempre condiviso la linea editoriale senza compromessi (tanto è vero che sono stato abbonato sin dal primo numero) e ho dato il mio contributo con parecchi articoli e recensioni, alcuni dei quali so che sono stati parecchio apprezzati per un taglio critico un po’ diverso e poco scontato (Son House su tutti). Quello che ritengo siano stati i difetti maggiori della rivista, purtroppo non secondari, si possono riassumere in: 1) qualità medio bassa della scrittura (l’italiano lasciava molto spesso a desiderare); 2) una scarsa capacità editoriale (date sbagliate, mancata verifica di informazioni facilmente riscontrabili in letteratura blues, ecc.). D’altro canto, ho sempre apprezzato l’idea di non “spaccare il capello in quattro” come fanno altre riviste.

2. Il contributo della rivista al mondo del blues italiano è stato a dir poco fondamentale. Non si continua a pubblicare per 40 anni se non si sa dare qualcosa a quello che – ne parlavo con due musicisti blues miei fan sfegatati – ritengo sia un pubblico un po’ immaturo e sostanzialmente troppo poco propenso a sforzarsi di capire che il Blues è innanzitutto cultura e comunicazione. Si legge troppo poco blues in Italia, e i musicisti, con alcune eccezioni, sono sicuramente la categoria interessata al blues che ritengo sia stata più deludente da questo punto di vista. Per quanto riguarda l’impatto della rivista a livello mondiale, temo sia stato minimo, nonostante premi e riconoscimenti che in tutta sincerità mi chiedo se siano arrivati dopo aver veramente letto i numeri della rivista, perché purtroppo gli anglofoni sono negati con le lingue e ritengono erroneamente che le pubblicazioni in altre lingue non abbiano valore. Nel mio libro sono citati “Il Blues”, i lavori di Portelli e di altri scrittori di lingua non inglese.

3. Francamente non mi sorprende. I collaboratori storici di qualità sono spariti (spero di essere stato tra questi), forse per i motivi di cui sopra, il cartaceo sta sparendo, tutti leggono superficialmente online. Certo rimane un senso di deja – vu e credo che la rivista mi abbia aiutato un po’ a crescere e a valutare ciò che era importante per me e quello che non lo era.

Gianandrea Pasquinelli

1. Il mio rapporto con la rivista è legato a due direttrici che ad un certo punto hanno raggiunto piena convergenza; la stima per Marino Grandi che del Blues si è eretto a paladino e porta bandiera, creando, unico in Italia, un punto di aggregazione e orientamento di passioni per lo più vissute, ancor oggi, in maniera strettamente individuale; la passione personale per il mondo dell’armonica e per la sua voce preminente all’interno della comunità Blues. Grazie alla fiducia che Marino ha riposto in me, ho avuto la possibilità di partecipare attivamente alla vita della rivista; ciò mi ha dato la giusta energia per affrontare la vita artistica di tre musicisti a cui sono molto legato, Alan Wilson, George Harmonica Smith e Charlie Musselwhite. Il rigore delle attività editoriali del Blues Magazine, mi hanno così portato a un migliore ascolto delle fonti e a ad un lavoro di ricerca che fino a quel momento dedicavo esclusivamente ai temi della mia attività professionale. Per me è stato un gran salto di qualità personale.

2. Autorevolezza e orientamento; il Blues appare come un magma informe all’interno del quale molti transitano cercando di appropriarsi esclusivamente degli aspetti formali; tuttavia, questo genere è molto di più della classica sequenza armonica o della qualità tecnica espressa dai singoli; è un genere che si può esprimere compiutamente solo attraverso un vissuto stratificato e una urgenza di liberazione e condivisione della esperienza personale; ciò rende la materia estremamente complessa e in questo l’attività di autorevolezza e orientamento editoriale della rivista ha fatto la differenza; i Blues non sono tutti uguali, alcuni ricadono nella pura estetica, altri, a dire il vero pochi, hanno titolo per chiamarsi come tali.

3. La sensazione è quella di tristezza; i portoghesi la chiamerebbero saudade; il mondo corre veloce, e le forme di comunicazione e trasmissione della conoscenza si adeguano rapidamente; non sono un barricadiero e non desidero contrappormi ai cambiamenti, ma questa chiusura mi rende nervoso; il primo segnale l’ho avuto con il passaggio della rivista dal cartaceo al digitale, un presagio della fine di un’era; da giovane assaporavo il contatto con le copertine dei dischi e il profumo della carta, ora c’è spotify e i libri e le riviste sono digitali; i tempi passano, spero che l’umanità resti abbastanza inalterata.

Marco Pastonesi

• Ci sentivamo, tutti, Alan Lomax. Pionieri, esploratori, scopritori. Viaggiatori nel tempo e nello spazio. Archeologi, geologi, musicologi. Proprietari di un sogno e di un progetto. Missionari, ambasciatori, crociati. O qualcosa del genere. Avevamo fondato il Milano Blues Club. Scrivevamo a Muddy Waters e John Lee Hooker, ai loro manager, ci rivolgevamo a Sunnyland Slim e Lafayette Leake, alle loro case discografiche, vennero Johnny Shines e Willie Mabon, anche nelle nostre case, arrivarono Taj Mahal e Jimmy Rogers, anche nelle nostre famiglie. Se ne sarebbe potuto fare un documentario, un film, un docufilm, un musical, un recital, una narrazione scenica. Se ne sarebbe potuto scrivere un libro. E chissà che prima o poi non si faccia o non si scriva. Ne nacque una rivista, “Il Blues”, senza tanti giri di parole. Lì dentro c’era tutto. Il sogno e il progetto, la missione e la crociata, ovviamente la musica e i musicisti, stavolta però all’italiana. Poi le nostre strade si sono separate, correndo parallele, affettuose, solidali. Ma ogni volta che scoccano quelle dodici battute, ogni volta che sgorga quella blue note, ogni volta che a un crocicchio appare il diavolo, ogni volta che un fiume sa di whisky e ci si trasforma in anatre tuffatrici, siamo tutti ancora – sempre – insieme. Fabio, Marino, Massimo e, modestamente, anch’io.

Maurizio Pol

1. Fonte inesauribile di conoscenza (non solo musicale) e saggezza, Marino è stato per me una sorta di guida spirituale, mi ha consigliato nei momenti più complicati, mi ha incoraggiato a dar seguito alle idee musicali che coltivavo. Mi ha insegnato a sintetizzare le impressioni che ricevevo dall’ascolto dei nuovi dischi da recensire, tutto questo mentre le mie esperienze musicali si sviluppavano anche su altre forme di espressione. Poi le cose della vita ci hanno allontanato e con il tempo anche il mio rapporto attivo con la rivista si è, a poco a poco, affievolito.

2. I musicisti americani erano entusiasti di essere intervistati da “Il Blues”, contenti di constatare che anche in Italia la loro musica veniva apprezzata. Alcuni musicisti nostrani invece, hanno peraltro considerato la rivista un mero vettore di promozione e pubblicità per i loro lavori, arrabbiandosi molto in caso di critiche dimenticando che il motore che muoveva “Il Blues” era la passione più genuina e disinteressata che esistesse (nessuno ha mai guadagnato una lira per il lavoro svolto).

3. È la fine della generazione dei Marino Grandi, Max Stefani, Paolo Carù cioè di quei pionieri che hanno contribuito a diffondere, non solo un genere musicale, ma un modo nuovo di vivere e sentire la musica. D’altra parte, oggi il mercato della musica è profondamente cambiato, i dischi non si comprano più, si ascoltano i brani direttamente dal web. Le riviste si vendono sempre meno e anche i musicisti, senza le entrate dalle vendite dei dischi, faticano ad arrivare a fine mese, così gli unici proventi per loro sono i diritti d’autore e i concerti live.

Gianfranco Skala

1. Con Marino ci siamo conosciuti nei primi anni Settanta e poi ho partecipato alla creazione della rivista fin dall’inizio. Erano tempi completamente diversi, in cui si faceva tutto a mano, non c’erano i computer ma tante difficoltà da superare. Ci sarebbero tante storie. Ricordo che la tipografia nei primi numeri era a Castano Primo e si andava là a comporre la rivista.

2. Un contributo molto importante. Ha fatto conoscere molti musicisti ad un pubblico che spesso aveva una conoscenza generica del blues. La maggior parte della gente allora in Italia conosceva gruppi che facevano cover di blues come Canned Heat, Johnny Winter, Rolling Stones…ma gli artisti che hanno davvero vissuto e creato il blues erano molto meno noti. E tutti questi musicisti la rivista ha sempre cercato di divulgarli.

3. Mi dispiace perché restava un punto di riferimento e dava la possibilità di leggere qualcosa di diverso sulla musica delle emozioni. Per me il blues è la musica delle emozioni, una espressione dell’anima. Non è certo la musica del diavolo, il diavolo non ha musica.

Renato Tonelli

1. Nel lontano 1986 (o 1987) contattai la redazione de “Il Blues” proponendogli di poter contribuire fotografie di musicisti e notizie da New York. Una decina di giorni dopo ricevetti una lettera in risposta affermativa da un certo Marino Grandi. Nella busta c’erano alcuni numeri della rivista. Fui subito colpito dall’altissima qualità dei contenuti: articoli ben curati e notevoli approfondimenti sugli artisti in primo piano, il tutto presentato con una grafica e un design altrettanto gradevole, attraente. In quei lontani anni ’80 nacque tra di noi una corrispondenza e molto di più: un’amicizia. (In seguito, conobbi Marino e anche Luciana e l’allora liceale Davide).

2. Dal suo primo numero, “Il Blues” ha fatto il suo lavoro con vecchie e nuove firme, facendo conoscere agli appassionati della musica Blues, e non solo, l’essenziale di questa musica sia nella sua parte musicale che sociale, i suoi noti e meno noti protagonisti attraverso una critica attentata, considerata e mai adulatoria.

3. È vero che ogni cosa arriva al suo fine e in questo caso vorrà dire perdere una rivista che è stata di buona compagnia, di non poter leggere il pensiero delle sue firme, amiche pure loro.

Fabio Treves

1. Tutto è nato dal rapporto di amicizia con Marino Grandi, a cui mi legava sin dagli anni Settanta la grande passione per un genere che qui in Italia era davvero poco conosciuto. Insieme abbiamo dato vita al “Milano Blues Club”, una piccola associazione che si prefiggeva di diffondere e divulgare il verbo blues. Abbiamo anche organizzato, insieme ad altre realtà, i primi concerti con grandi bluesmen americani ed inglesi, una vera primizia per quei tempi!

2. La rivista è stata importantissima per far arrivare alle masse il blues ed i suoi cantori, moderni e del passato. Ha intervistato centinaia di artisti, raccontato le loro storie umane, ha presentato i loro lavori discografici e messo in moto un’importante macchina culturale per far uscire “Il Blues” dall’anonimato in cui era relegato. Grazie alla rivista diverse generazioni hanno scoperto i grandi valori universali di questo genere musicale e grazie alla rivista molti giovani artisti emergenti hanno potuto trovare il Blues adatto a loro.

3. Sicuramente c’è tristezza, ma nello stesso tempo anche la consapevolezza che senza “Il Blues” in Italia ora ci sarebbe certamente un’altra situazione, sia per quanto riguarda le rassegne di Blues sia per la diffusione di giovani band che hanno deciso di intraprendere il lungo ed affascinante cammino sulla strada del Blues. C’è tristezza ma senz’altro la soddisfazione e l’orgoglio di aver trasmesso conoscenza e cultura.

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