Fabrizio Grossi ci ha “incontrato” virtualmente concedendoci un’intervista dopo che le nostre strade si erano incrociate a causa di (o sarebbe meglio dire grazie a) Matt Pascale, giovane musicista di blues italiano che lo scorso anno è andato in Norvegia alla Little Steven Blues School grazie alle borse di studio della European Blues Union. Quest’anno lo stesso Matt avrà l’opportuinità, sempre supportato dall’EBU, di frequentare il Pinetop Perkins Foundation Workshops a Clarksdale Mississippi. Ma la collaborazione di Matt con Fabrizio è legata alla sua ultima uscita discografica che è stata curata dallo stesso Grossi. Fabrizio però tra le sue mille attività è anche musicista, con i Supersonic Blues Machine, e vanta tra le sue frequentazioni diversi personaggi noti come il barbuto Billy Gibbons, ma lasciamo che sia lui stesso a presentarsi

D – Raccontaci chi sei e da dove vieni, visto che nome e cognome tradiscono un’origine italiana giusto?

R – Il mio nome è italiano, e sono nato e cresciuto a Milano, tranne il periodo delle scuole medie quando mi sono trasferito a Melzo, ma la maggior parte della mia vita è trascorsa a Milano. Ho suonato con molte band milanesi durante le scuole superiori. Mi ha sempre appassionato moltissimo la musica ed ho sempre avuto un occhio di riguardo per un certo tipo di musicisti e per un certo tipo di cose che funzionavano nella scena musicale di allora.  Il mio gruppo preferito dei tempi, che si esibiva in un locale chiamato Magia, che credo non esista più, sono gli Elio e le Storie Tese, sono il gruppo italiano migliore che sia mai esistito, sia dal punto di vista dei testi sia dal punto di vista musicale, anche anche perché si rifanno alla scuola di Frank Zappa a me molto cara.

D – Quando ti sei trasferito negli USA e cosa ti ha fatto prendere questa decisione?

R- Mi sono trasferito negli USA dopo l’estate del 1991, ed è stata una decisione importantissima, e ci sono arrivato perché la band con cui suonavo in Italia allora, con cui siamo rimasti in contatto e siamo ancora amici, si era sciolta a causa di diversi problemi. Noi lavoravamo davvero tanto, avevamo preso il suonare come una missione, e con alcune persone che ci stavano aiutando, tra cui la casa discografica di allora, avevamo avuto l’opportunità di suonare a nord di New York, in alcune parti del Canada, anche per imparare e praticare meglio l’inglese, e per fare esperienza con alcuni gruppi della realtà rock dell’epoca, stiamo parlando della fine degli anni ’80. E devo dire che l’esperienza americana, non è che mi ha sconvolto ma ha rafforzato il mio punto di vista ed il mio modo di vedere le cose. Quando suonavo in Italia, nei gruppi delle scuole superiori o appena dopo, quando volevi andare a registrare qualcosa, era davvero difficile,  senza sminuire le capacità degli operatori del settore italiani, ma l’italia non è mai stata un paese rock, o almeno a quei tempi, c’erano sicuramente dei mostri per i generi pop, dance classico, ma per il discorso rock la gente non aveva ancora un’idea precisa, soprattutto per gli ingegneri del suono e le case discografiche. Le band ci provavano anche e ci credevano, e c’erano anche dei musicisti bravi, che ci mettevano tanto impegno, che se fossero nati qui, sarebbero ancora attivi, però al tempo purtroppo non era così. Ma quando sono andato in Canada, i musicisti, i tecnici del suono, i locali, i roadies, si comportavano, come scelte del suono, come approccio, come mi sono sempre immaginato dovessero funzionare, e quindi mi sono guardato allo specchio ed ho pensato che non fossi io sbagliato, ma forse la realtà che mi stava attorno si trovava da un’altra parte. Siccome è quasi sempre difficile cambiare un paese, ho deciso io di cambiare e mi sono trasferito, e sono andato a New York. Anzi all’inizio volevo andare a Toronto, dove avevamo molti amici e che aveva una scena musicale incredibile, ma durante un viaggio in Canada, più propriamente il viaggio di nozze del mio primo matrimonio, le cose stavano già cambiando, il grunge stava arrivando e tante cose si stavano modificando.  Non era la Toronto che avevamo conosciuto ed imparato ad amare un paio di anni prima. Quindi durante una visita di un fine settimana a New York, ho deciso che quella sarebbe stata la meta statunitense per il trasferimento definitivo dall’Italia.

Fabrizio Grossi - Il Blues Magazine - intervista

Foto di Adam Kennedy

D -Musicista, produttore, arrangiatore, manager, e molto altro, in quale di queste figure professionali che ruotano attorno alla musica ti trovi più a tuo agio e perché?

R – Beh oddio, secondo me è una visone un poco distorta quella che il musicista deve fare solamente il musicista e basta, oppure solo il manager, anche se non faccio parte della generazione Z. Essendo nato in Italia, e avendo sempre avuto passioni musicali e per situazioni artistiche diverse da quelle che erano disponibili nel mio luogo di nascita, anche per questo mi sono spostato negli USA, ed ho dovuto avere a che fare e gestire tanti di questi aspetti per conto mio. Adesso il mondo è molto diverso, è un poco più piccolo e grazie ad internet è più facile essere cittadini del mondo e riesci a fare quello che vuoi, basta essere a contatto con chi fa parte della tua comunità. Ho dovuto imparare a gestire molti di questi aspetti per conto mio. Ad esempio se apri una attività come un ristorante e sei all’inizio,  a seconda del tipo di ristorante che apri, devi saper fare il ragioniere, il cameriere, il sommelier, il manager, il gestore ed il responsabile. Non capisco come si possa essere un musicista e non avere un minimo di infarinatura su ciò che questi ruoli in realtà comportano. Ovviamente non puoi essere un esperto su tutto, non puoi essere uno Steve Vai della chitarra, il Mike Portnoy della batteria, il Carl Stabner dei manager, il George Martin dei produttori, Emmet Heartgan dei discografici. Ma avere un attimo di infarinatura su tutti i ruoli del tuo business e le varie sfacettature,  penso sia molto importante. Io non mi sono sinceramente mai tirato indietro, e mi ha sempre affascinato tutto questo, anche perché mi ha dato la possibilità di venire in contatto con situazioni e personaggi che non mi sarebbero capitate se mi fossi limitato a fare il bassista. Che va benissimo per molti artisti, concentrandosi su quello ovviamente si ha la possibilità di diventare davvero molto bravi. Io però mi sono sempre considerato un artista a cui “è capitato” di suonare il basso, più che un bassista che poi decide di fare anche altre cose. Sinceramente tutti questi ruoli non mi hanno mai distratto, mi trovo a mio agio ad indossare tutti questi diversi “cappelli”.  Ovviamente il ruolo di produttore, sia musicale che di contenuti multimediali, e e di musicista sono le due cose che mi piacciono di più, quindi essere sul palco oppure in studio a suonare. Il resto non lo vedo come un peso o un obbligo ma sono solamente altri “colori” di quello che faccio per cui sono tutti benvenuti.

D – Supersonic Blues Machine e Soul Garage Experience, questi i tuoi progetti musicali principali, quali sono le similitudini ma soprattutto le differenze? Quali lavori avete in programma per il prossimo futuro?

R – Supersonic Blues Machine è l’unione di diverse personalità e di musicisti che hanno avuto l’onore di collaborare con tantissimi artisti storici, e nonostante io sia più il band manager che band leader, o meglio ancora produttore, e anche chi scrive la maggior parte dei pezzi, nei Supersonic Blues Machine ci sono molte dinamiche di gruppo, anche se alla fine si vede quasi sempre il sottoscritto a parlare,  è un lavoro d’equipe, c’è molta unione anche se poi sono le mie canzoni e  la mia voce che forse sono più visibili.  I personaggi che compongono i Supersonic Blues Machine, ovvero Kris Barras e Kenny Aronoff,  in questo caso, e gli ospiti che suonano con noi, alla fine abbiamo quasi tutti la stessa visione della vita sotto molti aspetti, come se fossimo una vera e propria squadra. Anche alcune scelte sulla performance e sulle esibizioni sono sempre condivise, le opinioni di tutti sono sempre rispettate e tenute in conto. Certe tematiche sia musicali che letterarie sono molto più corali, ed ognuno ha il modo di esprimere le proprie idee. I Supersonic Blues Machine come amiamo dire suonano “50 sfumature di blues”, abbiamo una radice blues molto forte, tutte le nostre canzoni hanno una base blues con una componente southern rock e anche soul molto forte. Mentre i Soul Garage Experience praticamente sono la mia band, ovviamente non sono sul palco da solo ma con altri musicisti, ma è un modo più personale di esprimere la mia idea di musica.. E’ la situazione musicale ma anche letteraria e di opinione, come di scelte, in cui mi ritrovo di più, anche i Supersonic Blues Machine sono molto personali, ma qui riesco ad esprimere e soprattutto ad espormi in prima persona. Come band incorpora molti più colori, prendiamo dal funk, dal soul, reggae, rock, sono cresciuto ascoltando Bob Marley, tanto quanto i Clash, tanto quanto i Queen, tanto quanto i Beatles, tanto quanto i Rolling Stones. A prescindere che io adori la musica afroamericana, c’è la musica di James Brown, Tina Turner, Earth Wind & Fire, e queste componenti sono molto vive nella musica che faccio, ma non posso dimenticare la musica con cui sono cresciuto. E’ un progetto molto più alternativo, di quella che potrebbe essere una  blues reggae soul funk band. Molto personale, anche dal punto di vista sociale e politico, forse la mia incarnazione di Tom Morello. E’ il risultato di tutte le mie scelte. Perché alla fine sono io che ho l’ultima parola, forse questa è la più grande differenza tra le due band. Quello che è davvero importante è comunque in entrambi i progetti il guardare avanti, al futuro,  e può anche essere “offensiva” per certi puristi, per quanto riguarda il blues, il soul, il funk, ma stiamo sempre puntando avanti, affrontando nuove sfide. Stiamo valutando un paio di progetti che sono piuttosto ambizioni, partendo  sempre dal passato, alla storia del blues, ma guardando ancora di più al futuro, soprattutto dal punto di vista di presentazione dal vivo, quasi con un approccio teatrale, sul discorso di spettacolo e performace. Mentre Soul Garage Experience si sta dedicando alla lavorazione del secondo disco, ma in modo molto più legato agli aspetti visivi, perché la nostra musica si sposa proprio con il discorso delle colonne sonore, è davvero legata ad elementi cinematografici e quello su cui stiamo lavorando ancora di più.

D – La tua conoscenza ma soprattutto amicizia con Billy Gibbons come è nata? Quali progetti avete sviluppato assieme (e magari quali svilupperete)?

R –  Lo zio Billy come lo chiama mia figlia, ma ha anche molti altri nomignoli, come The Reverend, è davvero un gran personaggio. Mi piace molto, perché tutta la gente con cui ho lavorato, soprattutto i chitarristi, mi hanno insegnato molto, non solo musicalmente ma soprattutto dal punto di vista personale. E Billy non è stato da meno. Ho conosciuto Billy, durante la produzione di una band di Glenn Hughes, con cui avevo appena finito di fare un live ed avevo prodotto uno dei suoi dischi in studio, “Soul Mover” che ancora ritengo uno dei suoi migliori per il vibe, dove c’era Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria, e anche Dave Navarro come ospite. E’ stato un periodo ottimo, mi sono davvero divertito a lavorare con Glenn. Lui era feature artist di una band russa della zona di St. Pietroburgo che si chiamava Pushking. Stavano preparando il 20esimo anniversario della loro carriera. In Russia facevano concerti con molti artisti occidentali e avevano in programma un disco con le loro canzoni e diversi ospiti tra cui Glenn, che mi presenta il cantante e il manager della band e alla fine ho preso in mano la produzione del disco. Ho così avuto modo di lavorare con numerosi artisti molto interessanti, da Alice Cooper a Paul Stanley. Ed ovviamente Billy era uno di questi artisti. L’avvocato di Glenn era anche l’avvocato di Billy, e mi sono ritrovato nello studio di Matt Sorum, storico batterista dei Guns’N  Roses, a Beverly Hills, a registrare il suo contributo musicale per questo disco. Devo dire che è stato “amore a prima vista”, e siamo diventati inseparabili. Abbiamo fatto tante cose assieme, alcune cose note e altre meno, anche da un punto di vista video, alcune sono però entrate negli spettacoli degli ZZ Top, abbiamo scritto molta musica assieme, e progetti che forse non vedranno mai la luce. E poi ovviamente i Supersonic Blues Machine,  perché sono nati da una collaborazione con Billy. Mi ha chiamato un giorno dicendomi che aveva l’opportunità con gli ZZ Top di fare un jingle per una marca di whiskey texano, ma sulla base di una vecchia canzone di cui non avevano i diritti per la parte video, e quindi mi ha proposto di scrivere una nuova canzone assieme. Così è nata “Running Whiskey” che è diventato il primo singolo del primo disco dei Supersonic Blues Machine. Abbiamo fatto molte cose assieme, anche a livello sperimentale, Billy è un appassionato di new wave inglese degli anni ’80, da cui le sue collaborazioni con artisti come i Depeche Mode. Potrebbe lasciare i puristi un po’ disorientati ma devo dire che a lui proprio non importa. E siccome condividiamo la stessa filosofia sui “fondamentalisti”, ci siamo ritrovati su molti aspetti, anche a livello personale, siamo ormai amici e considero lui e sua moglie come gli zii di mia figlia. Mi ha insegnato o almeno fatto capire molte cose, del perché ci vogliamo conformare alle norme quando in realtà tralasciamo la nostra personalità, come ad esempio il mio modo di parlare che è troppo newyorkese, esageratamente attento alla pulizia e ai termini. Lui mi ha proprio sottolineato che non dovevo avere vergogna delle mie origini italiane, e mi ha detto”why do you want to blend in when you can stick out?”, ovvero quanti Fabrizi conosci a Los Angeles che fanno il mio stesso lavoro? A parte Fabrizio Moretti dei The Strokes nessuno…Le sue massime sono incredibili. Abbiamo molta musica registrata da parte, e abbiamo entrambi la passione per la parte visiva e spero che presto potremo mettere in pratica questa passione. Ci stiamo lavorando per cui a buon intenditore…

 

Fabrizio Grossi - Il Blues Magazine - Supersonic Blues Machine intervista

D – Quale è la tua idea di blues nel 2023? Cosa pensi ci sia da cambiare del passato e cosa invece da tenere come eredità?

R – Cominciamo a capire cosa dobbiamo mantenere del passato. La lezione e la storia del blues, culturalmente e musicalmente. La ragione per cui è nato e da dove nasce il blues, i personaggi del blues,  per quale motivo questi personaggi si comportavano come si comportavano e parlavano come parlavano, e suonavano come suonavano, e la storia culturale e sociale del blues. Perchè queste cose non si possano dimenticare e vadano celebrate ricordate ed onorate, su questo cerco di essere molto attento. Cosa c’è da cambiare? La testa di molte persone che si reputa e viene reputata amante del blues o esperta di blues e per questo motivo poi si rifugia dietro atteggiamenti troppo ottusi. Persone che dicono  che non sei blues abbastanza, questo non è blues, sei troppo rock, troppo funk, troppo altro… A me i “talebani” non hanno mai ispirato in qualsiasi fase sociale o musicale. E’ sempre importante avere un occhio al futuro. Ricordiamoci che Freddie King, Jimmy Reed, Elmore James, lo stesso Robert Johnson, e ovviamente anche Albert King, e chi è venuto dopo, da Clapton con i Cream a Jimi Hendrix a Billy Gibbons. Questi personaggi quando sono usciti musicalmente e sono diventati famosi ottenendo successo, non avevano nulla di contemporaneo. Tutti hanno in qualche modo rotto con il passato, erano all’avanguardia nel loro conteso storico. Quindi non capisco gli “esperti” che per darti dell’ignorante perché non ti conformi alle norme si rifanno a personaggi che erano all’avanguardia nel loro momento storico. Questo modo di pensare va secondo me cambiato. Il blues del 2023, ti faccio un solo nome: Fantastic Negrito. Lui è il blues di adesso, Tutto il resto che viene chiamato “contemporary blues”, compresa la mia band, alla fine è comunque sempre blues con dentro un pochino di rock e suonato con amplificatori più moderni. L’approccio di Xavier, soprattutto nel primo disco, “The Last Days Of  Oakland” è un’opera d’arte. Unisce le tecniche di produzione che i Beatles avevano usato negli anni ’60, applicate ad un contesto blues, dove si passa da momenti gospel  a momenti quasi Delta, ma con batterie elettroniche, con suoni da deejay, e tutto è  incredibilmente blues, sia come testo che come sofferenza dell’animo di questo artista incredibile. Questi sono gli artisti del 2023, che vanno considerati come i nuovi pionieri del blues.

D – Credi che la scena musicale, blues e non solo, negli Stati Uniti ed in Europa, sia particolarmente diversa oppure no? E per quale motivo?

R – E’ interessante questa domanda, perché gli Stati Uniti non sono mai stati il punto di riferimento per il blues. Penso che dal punto di vista di essere eclettici e anche per l’atteggiamento di “breaking the rules”, forse l’Europa e soprattutto l’Inghilterra ha avuto la meglio sugli USA, e anche per le cose tipicamente americane come il blues, che è nato in America ma se non ci fossero stati i Rolling Stones,  se non ci fosse stata la british invasion, le famose London Sessions di Howlin’ Wolf, non so se il blues negli Stati Uniti avrebbe preso una posizione così mainstream come poi è accaduto. E questo con il successo dei Rolling Stones ad esempio con “Little Red Rooster” e tutti gli altri inglesi che sono venuti a ruota. Però devo dire che il blues che si sta vedendo adesso negli USA e quello che si sta suonando adesso in Europa, vede gli USA in prima posizione, perché dal punto di vista del blues al giorno d’oggi vedo qui negli USA più competizione in senso buono, e tendenza ad essere innovativi, una apertura ai nuovi sound. Mentre in Europa trovo piuttosto un atteggiamento conservativo, sia dal punto di vista degli esperti e degli ascoltatori, sia dal punto di vista dei musicisti. Gli artisti blues europei tendono ad essere più tradizonali rispetto agli americani, che in fondo sono nati e cresciuti nell’ambiente che ha dato la luce a questa musica, per cui in teoria dovrebbe essere il contrario. Li trovo più conservatori, mentre gli americani stanno osando molto di più. Guarda ad esempio Fantastic Negrito, oppure cosa sta facendo adesso Eric Gales, mi ricordo quando abbiamo lavorato insieme su “Middle Of The Road”, nonstante lui non sia un artista prettamente blues, è influenzato da esso ma è un artista fondamentalmente rock con molte influenze gospel, visto che è cresciuto suonando in chiesa. Ma quello che fa musicalmente va al di là del blues, anche ad esempio come attinge dalle lezioni musicali di Coltrane o di jazzisti di questo tipo. E’ diverso. Guarda ad esempio quello che è successo come dicevamo prima con Marcus King, o The Record Company. Stiamo parlando di gente che è nata nelle città che ha visto personaggi come Elmore James o B.B. King, eppure riescono a partorire sonorità completamente diverse. Mentre in Europea manca un poco di fantasia, dal punto di vista del blues, si è più tradizionali rispetto all’elemento europeo, eclettico e personale. Non c’è una tradizione storica che lega il vecchio continente ad una tradizione blues, nel senso che dobbiamo mantenerlo così perché lo suonavano i nostri nonni. Ci potrebbe essere molta più apertura ma non la trovo. Alcuni personaggi vanno seguiti da vicino come ad esempio dall’inghilterra Troy Redfern si sente che è molto blues ma ha un sound molto cupo, quasi come se i Black Label Society si fossero rimessi assieme. E poi c’è anche un ragazzo “nostrano”, il siciliano Matt Pascale, che so che conosci bene. La sua musica, non quella in uscita ora ma soprattutto quello su cui sta lavorando, secondo me è davvero innovativa. Una rivoluzione di molte lezioni blues europee che sono state usate e risultano trite ritrite. Devo dire che l’innovatività in questo settore, a scapito del vecchio continente, appartiene ora agli USA. Non so il perché ma posso fare alcune ipotesi. Secondo me il blues non è più legato alle aree agricole e del sud, anzi è stato preso in mano dalla popolazione bianca ed è stato portato nelle grandi città, come Austin, Nashville, New York, Los Angeles, San Francisco, dove ha subito l’influenza di tanti altri stili ed etnie, e soprattutto l’influenza del fenomeno hip-hop, e questo  ha portato ad una maggiore tendenza ad osare e ad essere più evoluti rispetto all’Europa.

D – Come lo vedi il futuro della musica? Pensi che le varie trasformazioni (tecnologiche e non solo) finiscano per impoverire la creatività o, come spesso accade, è solo questione di tempo e continueranno a nascere nuove ispirazioni e creazioni?

R- Sinceramente sono molto positivo, soprattutto per la musica che piace a noi, non tanto perché ha una base blues, ma perché ha una base molto organica e socio culturale, sono positivo perché ho molta fiducia nei giovani. Gente della mia età, o anche un poco più vecchia, sta guardando ai giovani adesso come una massa di scellerati e mollaccioni, ma devo notare che le cose non sono proprio così. Sono coinvolto con molte associazioni di music charity, soprattutto Music Cares, quella dei Grammy, e sono gestite da gente che ha in media 30 anni, e  la loro differenza di visione, non solo della musica, ma soprattuto dell’inclusività, quella di non avere divisioni, di stile ed etniche, legate al fatto ad esempio che i neri devono fare hip-hop, i bianchi devi fare rock, sei giallo e devi fare dance, etc. E’ tutto molto inclusivo e coerente. Ricordo anche mia figlia quando andava a scuola, i suoi amici erano di tutti i colori e di tutte le religioni. Ovviamente quindi crescere in un ambiente del genere, la musica che ti porti dietro perché viene dalla tua famiglia, si mischia con quella degli altri, e questo è davvero molto interessante. Il fatto che i giovani non stiano guardando solamente a come fare per guadagnare, avere un approccio più “puro”, avere molti emergenti e indipendenti, che non sono solamente considerati dal punto di vista business e si possono presentare al pubblico, tutto ciò è fantastico, è davvero una grande opportunità. Il loro obiettivo spesso è solamente quello di condividere il loro progetto e dal punto di vista artistico è davvero fantastico. Il problema però è che la tecnologia che a volte ci dà l’opportunità di finire un brano ed essere nelle case di chi ci ascolta entro sera, senza passare attraverso la casa discografica, non è solo positiva. Purtroppo la monetizzazione dello streaming è un grosso problema per il futuro degli artisti. Finchè tutti questi aspetti non verranno un attimo ben delineati, regolarizzati e messi in mano agli artisti e non solo agli esperti di computer, che possono guadagnare dalla fatica e dal talento degli altri, il tutto si potrà bilanciare. Da un punto di vista anche di mercato e music business, visto che c’è molta crisi nel nostro settore. E’ un periodo di trasformazione. Probabilmente chi era nel music business quando avevo 16 o 17 anni, guardava a ciò che stava succedendo come ad un eresia o ad un disastro e a noi giovani come dei folli. Non vorrei si cadesse nella stessa trappola. Secondo me c’è davvero un grande potenziale e cerco di rimanere positivo. Spero che la nuova generazione riesca a mantenere l’approccio artistico anche su come viene gestito il music business, allora ne vedremo delle belle. Una cosa che mi piace molto è che la musica non è più un’arte che si appoggia ad un senso solo, l’ascolto, ma ormai è legata a quello visuale, ormai è impossibile o improbabile presentare una canzone senza un elemento visivo, un video, sia professionale che girato con un telefono cellulare,  la gente vuole vedere per ascoltare. Mi fa piacere anche perché unisce le mie due passioni, la musica ed il cinema. Anche se siamo in un periodo di stasi e di confusione per chi opera nel mio settore dal punto di vista professionale, dal punto di vista artistico stiamo per entrare in una nuova era e spero che i nostri giovani non ci deludano al riguardo.

Supersoni Blues Machine - Fabrizio Grossi intervista Il Blues Magazine

Foto di Adam Kennedy

D – Se dovessi farti tu una domanda che noi non siamo riusciti ad immaginare, per parlare di un argomento a te caro, quale sarebbe la domanda e soprattutto la risposta?

R – Una domanda che mi piacerebbe fare a diversi artisti, vedendo la situazione attuale del music business, e questa fase di cambiamento che sta creando molta confusione in parecchi artisti, che ha cambiato la struttura economica del music business, di quello che un artista deve fare per poter campare di musica, se dovessi fare questa domanda ad un mio/una mia collega, è praticamente che cosa lui cambierebbe dello status quo. La risposta per me, ovviamente se mi facessero questa domanda, sarebbe questa: mi preoccuperei che l’arte, in questo caso la musica, venga rispettata un poco di più. Abbiamo avuto un certo declino del rispetto per la musica. Ma non soltanto perché è una questione di business, più in generale. Vedo anche qui negli Stati Uniti, che ormai considero il mio paese visto che ho abitato più qui che in Italia, quando andavo a scuola, alle medie o superiori, i corsi musicali erano potentissimi. Se pensiamo a gente come Steve Lukather, Michael Landau, Jeff Porcaro, John Pierce gente di questo tipo, questa è gente che ha imparato a scuola, non è andata a Berkeley, o al Musician Institute. E’ gente che ha imparato sui banchi del liceo. Ovviamente ci vuole talento, se colui che riceve le informazioni non è dotato e recettivo di suo non succedono miracoli. Quando l’educazione musicale era tenuta in considerazione, e non è molto legato solo al mondo del rock o del blues, il massimo era suonare nella banda della scuola. Magari il tuo strumento era la chitarra o il basso e ti ritrovavi a suonare la tromba o il tamburo. Basta guardare la figura di Flea dei Red Hot Chili Peppers, ti apre la mente e non solo ti rende migliore come musicista ma ti affina il palato. Per quale motivo ad esempio noi in Italia ce la tiriamo dal punto di vista culinario e non possiamo sopportare l’ananas sulla pizza o il sugo della pasta che viene aggiunto nella pentola con l’acqua?  Ci diamo delle arie dal punto di vista enogastronomico e culinario per gli ingredienti ma soprattutto per come siamo cresciuti, guardando la mamma o la nonna o il papà che cucinava. Era normale e questo ci ha affinato il palato. Ad un italiano non gli dai da mangiare la pasta in scatola, che ormai non mangia più neppure l’americano. Secondo me l’educazione musicale nelle scuole e a portata di tutti aveva proprio l’effetto di affinare il palato. Ad un livello tale che certi scempi dal punto di vista musicale non avrebbero mercato. Lungi da me criticare uno o una collega per il genere o il tipo di musica che fa. Puoi fare dance, pop, blues, folk, qualunque tipo di musica e se lo fai con passione, non posso che esserne ammirato, perché questo ti rende sincero. Ci sono dei deejay che adoro, anche per come approcciano il discorso ritmico, è davvero bello vederli in azione. Ci sono però certi artisti o “fenomeni”, che sono degli scempi, perché legati solamente ad un discorso commerciale. Sono operazioni manovrate dall’alto a volte neanche tanto bene. Ci sono state altre situazioni come ad esempio gli NSYNC, che seppure partita come discorso commerciale, vede la presenza di Justin Timberlake che è un vero genio artistico, scrive, suona, canta, balla, recita, e seppure il suo esordio sia legato appunto ad un discorso hip-hop che può far sorridere ad esempio agli appassionati di chitarra elettrica, non sminuisce il suo livello artistico. Il fatto di aver diminuito gli investimenti per l’educazione musicale, non soltanto qui negli USA, dove si sente moltissimo, ha abbassato il livello del gusto musicale delle persone, ed ha permesso a tutti di pubblicare musica di basso livello, in un panorama musicale sovraffollato. Molti artisti validi difficilmente saranno ascoltati perché persi nel mare magnum, a meno di non avere delle possibilità economiche fuori dal comune per la promozione. E ci fa quasi rimpiangere il periodo d’oro delle case discografiche che se da un lato si accaparravano la maggior parte dei diritti d’autore dell’artista, dall’altra parte quando ci mettevano le mani, l’artista era davvero conosciuto dal pubblico e lui stesso poi riusciva a campare con la sua musica.  Adesso c’è una anarchia generale che durerà secondo me finchè questo periodo di transizione non passerà. Le priorità sono completamente diverse dal punto di vista sociale. L’arte non viene più apprezzata come veniva apprezzata una volta, parlando soprattutto della musica, secondo me abbassa il livello del palato e fa si che ci si accontenti di poco. E quando ti accontenti di poco, come diceva Trent Reznor, “is a downward spiral”.

 

Davide Grandi

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