Già piuttosto abituata ai palchi europei, soprattutto francesi, meno a quelli italiani, almeno fino a quest’anno, quando ha avuto modo di suonare a Modena in primavera, Trento e Cinisello Balsamo in estate. Abbiamo assistito a quest’ultimo concerto, il 25 luglio scorso, nell’ambito della manifestazione itinerante “Suoni Mobili” che coinvolge comuni nelle province di Lecco, Monza-Brianza e Milano.

Molte serata sono gratuite (questa inclusa), il cartellone è ricco di proposte di musica folk da varie parti del mondo, a testimonianza di uno sguardo attento a realtà diverse e fuori dei circuiti comuni. La giovane McCalla, voce chiara, a volte venata di malinconia, passa con disinvoltura dal suo strumento principe, il violoncello, a banjo o chitarra, supportata da “Free” Feral alla viola e dal marito Daniel Trembley, chitarra, tie-fer, banjo. Comincia dal titolo del suo ultimo disco “A Day For The Hunter, A Day For The Prey”, da un modo di dire haitiano, come spiega lei dopo l’esecuzione.

Foto di Matteo Bossi

E’ una musica evocativa, di una bellezza quasi rarefatta, che è stata in grado di catturare il rispetto e l’attenzione del pubblico, accorso numeroso nella bella cornice del cortile di Villa Breme Forno. Canta brani in inglese, come ad esempio “Little Sparrow”, una canzone riscoperta, dice Leyla, “grazie ad un disco di Ella Jenkins, una grande cantante conosciuta come interprete di musica per bambini”. O ancora una ballata, “Heart Of Gold”. Altri sono invece della tradizione creola o haitiana quali “Manman Mwen” o “Latibonit”. E’ un approccio insieme colto e popolare, di riscoperta della propria cultura, un messaggio di contaminazione e connessione. Molte di queste canzoni si rifanno alla tradizione di “musica troubadour” di Haiti, come spiega lei, ed hanno un significato sociale o politico. Un esempio in tal senso è “Peze Café”, un racconto che parla di violenza da parte della polizia, che arresta un ragazzino mandato a pesare il caffè. Ma hanno spazio anche le musiche della tradizione folklorica louisianese, sua terra d’adozione, “vivo a New Orleans dal 2010”, quindi lo strumentale “Bluerunner” oppure “Salangadou” in creolo / cajun, dolente e magnetica. Molto belle “Mesi Bondyè” un canto di ringraziamento haitiano, oppure “Love Again Blues”, tratto dal suo primo disco che metteva in musica alcune poesie del suo autore preferito, Langston Hughes. La sua voce è dotata di una forza tranquilla e sa abbinare dolcezza, pensiamo ancora a “Fey-O” oppure severità, “Changing Tide”, effetti amplificati da un lavoro d’accompagnamento di gran sensibilità. Portatrice di una musica del tutto personale, seppur con qualcosa di antico, ci auguriamo che Leyla McCalla possa tornare regolarmente a suonare nel nostro paese.

 

Matteo Bossi

 

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