Torniamo con piacere, dopo tre anni, a Lucerna per il festival, di nuovo formula tradizionale con tre serate ricche di musica nel Grand Casino in riva al lago dei Quattro Cantoni. Un appuntamento importante per gli appassionati e ce ne siamo forse accorti ancor di più nel periodo nel periodo di sospensione, come spesso succede nella vita. Il cartellone inoltre prevedeva, accanto al ritorno di beniamini della manifestazione (pensiamo ad esempio a Billy Branch), diversi nomi nuovi ancora poco noti in Europa.

E’ il caso, ad esempio, di Donna Herula, chitarrista e cantante di Chicago che ha inaugurato la serata di giovedi dieci novembre. Alla prima performance europea la Herula comincia da sola in acustico con una versione di “Crossroads”, per poi essere raggiunta da contrabbasso e chitarra e progressivamente, da batteria e due coristi tra cui il marito, Tony Nardiello. Chitarra acustica o resofonica, sovente suonata slide, voce sicura, Herula ha mostrato un repertorio che alterna qualche cover a sue composizioni. Tra le prime “Who’s Been Cooking In My Kitchen” dall’allusivo doppio senso oppure “Movin’ Back Home”, entrambe contenute nel recente “Bang At The Door” e nel finale anche un bell’omaggio a Sonny Payne “Pass The Biscuit”. Tra le seconde, “Soul Of A Man” o due gospel da una da Sister Rosetta Tharpe, un’altra delle sue artiste preferite. Set simpatico e coinvolgente, ben costruito nello sviluppo e nell’esecuzione, da parte di musicisti visibilmente contenti di essere qui a suonare.

 

Cambio deciso di atmosfera e di volumi per il concerto dei GA-20, trio con due chitarre, Matt Stubbs e Pat Faherty (anche alla voce), più la batteria di Tim Carman. Si sono fatti conoscere nel giro di pochi anni con una serie di dischi su etichetta Colemine, tra cui il tributo ad Hound Dog Taylor uscito in collaborazione con Alligator, “Try It…You Might Like It!”. I tre infatti si rifanno, per lo meno nell’attitudine, all’approccio iconoclasta di Hound Dog, senza basso, imbastiscono una musica ruvida e diretta, badando meno alla forma e più all’energia. Forse un po’ troppo rock per qualcuno, efficaci per altri, i tre comunque mettono tutti d’accordo nelle riletture del repertorio di Taylor come “Give Me Back My Wig” o “She’s Gone”. Altri pezzi sono anche tratti dal loro album precedente “Lonely Soul” come appunto la canzone titolo o da quello successivo, “Crackdown”, come “Easy On The Eyes”.

Diunna Greenleaf – Foto di Gianfranco Skala

La cantante texana Diunna Greenleaf ha pubblicato quest’anno forse il suo miglior album “I Ain’t Playin’”, per la Little Village Foundation. Qui è accompagnata dal suo gruppo non dai musicisti presenti in studio (Jim Pugh, Derrick Martin, Kid Andersen…), con una eccezione notevole. Infatti, al basso si può fregiare dei servigi di un musicista eccezionale, Jerry Jemmott, già accanto a King Curtis, Aretha Franklin, Howard Tate, B.B. King e mille altri. Diunna in forma e per parafrasare il titolo del suo disco, fa sul serio, canta con veemenza, senza risparmiarsi canzoni tratte dal suo lavoro, “If It Wasn’t For The Blues” o “Damned If I Do”. Ricorda con nostalgia la sua prima partecipazione al festival nel 2004, ospite della revue di Chicago blues che comprendeva Carey Bell, Hubert Sumlin, James Cotton, Willie “Big Eyes” Smith, purtroppo tutti scomparsi e invita sul palco Rick Estrin e Jerry Portnoy.  Vedere all’opera Jemmott, settantaseienne, è una lezione di groove e melodia, sempre al servizio della musica. Buono il gruppo con l’armonicista Marcelo Fonseca, Cris Crochemore alla chitarra e Derwin Daniels alla batteria, multistrumentista, con un passato negli Ohio Players dice Diunna, si produrrà infatti in un bel solo al sax ad un certo punto). Bis con una splendida “God Bless The Child” solo per la voce della Greenleaf.

Billy Branch – Foto di Gianfranco Skala

Billy Branch, sale sul palco molto carico e si avventa su una serie di brani dal repertorio di Little Walter, molti dei quali presenti sul suo bel disco del 2019 su Alligator, “Roots And Branches”. Personalità e destrezza non gli sono mai mancati ed anche questa sera ne dà un saggio e dall’omaggio ad un grande innovatore come Little Walter ricava una saldatura, creativa e insieme rispettosa, tra il Chicago blues di ieri e quello di oggi. Scorrono “Blue And Lonesome” o “Mellow Down Easy”, ma anche “Boom Boom” o la sua divertente “Blues Shock”. Concede spazio anche ai suoi fidati Sons Of Blues, questa volta schierati con Sumito Ariyoshi alle tastiere, Dionte Skinner alla batteria, Ari Seder al basso e il valido Giles Corey alla chitarra (anche al canto in “Don’t Let The Green Grass Fool You”). Concerto possente e convincente.

La serata di venerdi si apre invece col giovane McKinley James in trio col padre Jason Smay alla batteria (già membro per lungo tempo dei Los Straitjackets e poi con JD McPherson) e Austin John Doody all’organo. Cresciuto a Nashville, ha cominciato a farsi conoscere da qualche tempo e, nemmeno ventenne, ha inciso un EP con la produzione di Dan Auerbach presso gli Easy Eye Sound Studio. Il gruppo ha un buon amalgama d’insieme e muovendosi lungo coordinate rock’n’roll, dà vita ad una serie di brani veloci e di breve durata, dal sapore vintage anche quando sono suoi pezzi autografi come “Got A Hold On Me” o “Right On Time”.

Crystal Thoma

Crystal Thomas – Foto di Gianfranco Skala

Aveva cantato già a Lucerna lo scorso anno, in una edizione a ranghi ridotti del festival, all’interno di una revue dell’Eastside Kings Festival di Austin curata da Eddie Stout. Questa volta invece Crystal Thomas, cantante e trombonista originaria della Louisiana ma residente in Texas, è accompagnata dalla band giapponese Bloodest Saxophone, con i quali ha anche inciso, si veda l’album “Texas Queen 5”. La Thomas impressiona favorevolmente per le qualità vocali e un repertorio tra blues e soul, ben sorretto dalla band, un quintetto in cui il sax di Shintaro Koda detta i tempi e gli interventi dei sodali. Dal suo ultimo album, “Now Dig This!”, su etichetta Dialtone, estrae pezzi quali “No Cure For The Blues” o “ Can’t You See What You’re Doing To Me”.

Duke Robillard – Foto di Gianfranco Skala

Sotto il nome di The Founders toccava poi ad un gruppo di veterani ex fondatori, nomen omen, dei Roomful Of Blues. A cominciare da Duke Robillard, Al Copley, una sezione ritmica formata da Mark Teixeira e Marty Ballou, oltre ad una sezione fiati comprendente Greg Piccolo, Doug James e Rich Lataille. Un set con molto mestiere e altrettanto divertimento, in cui ripercorrono, la propria giovinezza infilando pezzi tratti dai primi LP dei Roomful, quali “You Rascal You”, “Love Struck” o “Something To Rember You By” (Guitar Slim). Robillard, Copley e Piccolo si alternano al canto omaggiando alcuni dei loro eroi, come Eddie “Cleanhead” Vinson.Il compito di chiudere la seconda sera spettava ad una revue, Knock Out Greg & The Scandinavian Blues Flames, che, come il nome lascia facilmente intuire, assemblano musicisti nordici capitanati da Greg Andersson (chitarra, armonica, voce), con la presenza del finlandese Tomi Leino.

Nel frattempo al Casineum i ticinesi della Delta Groove Band, con un repertorio quasi interamente dedicato a Robert Johnson, scaldano la platea per il secondo concerto ancora più incandesente dei GA-20 dalle 01:30 fino a tarda notte!

Da Memphis, Tennessee la Ghost Town Blues Band guidata da Matt Isbell si muove su un asse orientato più al southern rock che non al blues, per aprire l’ultima giornata di sabato del festival. Isbell ricorda, (ma solo nel look!), Derek Trucks, suona chitarra, armonica e talvolta una cigar box e guida la band, appoggiandosi su un secondo chitarrista, Taylor Orr, un tastierista e una tromba/trombone, oltre alla sezione ritmica. Però l’impasto di elementi southern (suonano perfino una improvvida “Whipping Post”), funk e qualche inserto blues, “Shine” o la finale “I Get High”, non risulta del tutto centrato.

Jerry Portnoy – Foto di Gianfranco Skala

Ritroviamo con piacere Jerry Portnoy, armonicista cresciuto a Maxwell Street a Chicago dove suo padre aveva un negozio e poi, come noto, per anni al servizio di Muddy Water, poi con Legendary Blues Band, Eric Clapton e dozzine di altre collaborazioni. Portnoy, che ricordiamo talvolta anche accompagnato da musicisti italiani quali Guitar Ray & The Gamblers o Umberto Porcaro, era qui supportato dal trio del chitarrista Ricky “King” Russell ed ha ancora una volta impressionato per il tono della sua armonica e le melodie venate di jazz che dipinge, alternandole a pezzi divertiti come “Charge It” o un omaggio al suo vecchio boss Muddy con “She Moves Me”.

Rick Estrin – Foto di Gianfranco Skala

A Portnoy succede un suo amico da oltre quarant’anni, Rick Estrin coi fedeli Nightcats, che da qualche anno oltre a Kid Andersen, sempre più bravo e corpulento e Lorenzo Farrell alle tastiere/organo, annoverano il funambolico batterista Derrick “D’Mar” Martin. Estrin è armonicista creativo, maestro nell’uso delle dinamiche e nel raccontare storie piene di ironia, swing e divertimento, in una musica che intreccia blues, rock’n’roll e un groove continuo, grazie alla macchina ritmica fornita dai Nightcats. D’Mar showman a sua volta, che molti ricorderanno per esempio a Porretta quando faceva parte del gruppo di Anthony Paule, si concede anche una passeggiata tra il pubblico continuando a tenere il tempo suonando qualsiasi cosa gli capiti tra le mani. Hanno un repertorio vasto e vario, basti pensare ad alcuni estratti dell’ultimo loro prodotto discografico, “Contemporary”, quali la ritmata “She Nuts Up” o lo strumentale “House Of Grease”.

Buchwheat Zydeco Jr – Foto di Gianfranco Skala

Sir Reginald Dural alias Buckwheat Zydeco Jr conclude la tre giorni rispettando la tradizione che vuole una band zydeco come ultimo gruppo. Scelta lodevole, visto che diventa sempre meno frequente poter assistere in Europa a concerti di artisti zydeco. La stanchezza comincia a farsi sentire eppure questa musica invita alle danze a partire da “Walking To New Orleans”. Buckwheat Zydeco è scomparso nel 2016 (aveva suonato qui due anni prima), ma il figlio ne onora degnamente la memoria, dimostrandosi come del resto il padre, valido anche all’organo hammond in un paio di pezzi. Set divertente.

Harlem Lake – Foto di Davide Grandi

Sempre quasi in parallelo al Casineum ecco gli Harlem Lake, giovane band olandese vincitrice dell’European Blues Challenge tenutosi a Malmo in Svezia lo scorso giugno. Tra brani originali come “The River” e cover famose come “The Letter” contagiano il pubblico con tutta la loro energia e giovinezza, senza perdere un solo colpo e dimostrando così una professionalità ben al di sopra della media, alquanto inaspettata per l’età anagrafica dei componenti della band.  A chiudere la serata nuovamente i nordici Knock Out Greg & The Scandinavian Blues Flames.

 

Matteo Bossi e Davide Grandi

Category
Tags

Comments are closed

Il Blues consiglia

 

Comfort Festival 2024

Per la tua grafica

Il Blues Magazine