Davvero bello ritrovare Otis Taylor e farlo al Folkclub di Torino, luogo, come ha ricordato lui stesso, del suo primo concerto in Italia nel marzo del 2003. Sono trascorsi quasi vent’anni, ma lui è rimasto fedele ad una sua visione della musica, intensa, personale e primordiale, indipendentemente dai differenti musicisti che ha avuto accanto per tratteggiare il suo universo sonoro. Otis ha fatto dell’originalità una prerogativa, muovendosi in direzioni non prevedibili, prendendo rischi e accostando elementi in apparenza distanti. Negli ultimi anni ha diradato un poco la produzione discografica, l’album più recente è infatti “Fantasizing About Being Black” del 2017, ma Taylor, che pure ci ha detto prima del concerto di essere al lavoro su un nuovo album, può attingere ad un vasto corpus autografo di composizioni. In questo tour è accompagnato da Nick Amodeo al basso e Byron “Kidd” Cage alla batteria, ma l’inizio è affidato solo alla voce e alla chitarra di Otis alle prese con le cadenza di “Jump Jelly Belly”. Come sa chi lo ha seguito dagli inizi, l’irsuto Taylor riesce a scavare in profondità con pochi e reiterati passaggi alla chitarra, su di essi innesta il suo cantato ora declamatorio ora quasi sussurrato, gestendo con grande sapienza curvature e dinamiche. Questa sera pesca soprattutto dal passato momenti come “Just Live Your Life”, la vita è breve e talvolta strana ci ricorda Otis, con un invito ad assaporarne i momenti, anche il riso o forse il pianto. “C’è qualche canadese?” nel pubblico (risposta negativa, per la cronaca) prima di eseguire “Looking For Some Heat”, brano che apriva il suo “Pentatonic Wars And Love Songs” anni fa. Particolarmente evocativa “Nasty Letter”, sofferta e secca come il deserto e sempre efficace, in ogni veste, “Hands On Your Stomach”. Passa al banjo per eseguire uno dei suoi caposaldi, “Ten Million Slaves”, ben punteggiata dal lavoro ritmico di Amodeo e Cage.

Foto di Matteo Bossi

Nell’introdurre “Resurrection Blues” racconta di come questa sua vecchia canzone sia finita in un film italiano di cui non ricorda il titolo e invitando il pubblico a rintracciarla. “La canzone in ogni caso ha dieci milioni di visualizzazioni su youtube” aggiunge Otis. Il pezzo suona ancestrale e modernissimo al tempo stesso, di grande impatto emotivo. Dopo una breve pausa, il pubblico, molto numeroso e attento, è pronto a gustarsi la seconda parte del concerto. Nel frattempo, si è risolto l’enigma del titolo del film. Si tratta di “Cosa fai a capodanno” (2018), ma con divertimento di Otis, nessuno tra i presenti lo ha visto. Si alza in piedi per una lunga rivisitazione di “Hey Joe” (su di essa ha costruito un intero e riuscitissimo album nel 2014), che si dilata sino ad assumere i connotati del suo inconfondibile “trance blues”, con una coda strumentale psichedelica, “Sunday Morning”. Immancabile il passaggio all’armonica per innervare il diddley beat sincopato di “Hambone”, altro pezzo che non manca quasi mai nei suoi live. Il concerto volge quasi al termine, “ho settantaquattro anni”, dice un Otis visibilmente affaticato, “non faremo bis, anzi il bis è questo”, prima di attaccare il riff di “Black Witch”, scandito dal battimano del pubblico per un ultimo, lungo e ipnotico boogie. Un bel concerto, una conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, della personalità unica di Taylor, artista, per concezione poetica e musicale davvero singolare nel panorama sonoro delle ultime decadi. Un plauso anche al Folkclub per averlo riportato in Italia e in una dimensione, quella appunto del club, ideale per apprezzarlo. 

 

Matteo Bossi 

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