Irma Thomas (foto Philippe Pretet ©)

In tempi di austerity più o meno diffusa, per fortuna in Svizzera la manifestazione musicale  non è toccata dai tagli imperanti e continua ad offrire molte ragioni perché ogni anno, quella trascorsa è stata l’edizione numero diciotto, appassionati da mezza Europa si ritrovino a Lucerna. Anzi la crescita anche a livello di pubblico ci è parsa costante, tanto è vero che sin dalla serata di giovedì 15 novembre, l’affollamento nella sala del Casino è stato notevole. Tutto questo è anche il risultato di proposte ad alto tasso di qualità, tanto è vero che, quasi una dichiarazione d’intenti, apre Charlie Musselwhite, con la classe e passione che lo contraddistinguono. Charlie dapprima è solo alla chitarra elettrica, gli bastano pochi tocchi ma personali, esempio “Stingaree”, poi lo raggiunge Matthew Stubbs alla chitarra per qualche brano mentre lui passa all’armonica (“Bad Boy”) e degno finale con la band al completo, “Blues Overtook Me”, “Sad And Beautiful World” ed una “Highway61” da antologia. Difficile pensare ad un inizio migliore per il festival.

Da un vecchio gentiluomo del blues ad una giovane speranza, il ventunenne Marquise Knox da Saint Louis, che in effetti conferma quanto di buono lasciavano presagire i due CD a suo nome editi dalla APO di Chad Kassem. Knox è chitarrista e cantante che non subisce l’emozione  e denota una maturità superiore all’anagrafe; assenti parossismi chitarristici o tentativi di strafare, Marquise si concentra sulla musica, col suo quartetto. Conosce la tradizione, “Two Trains Running”, inanella anche un paio di lenti di spessore, tra cui “Sometimes  I Wonder”, e si permette persino una non irriverente “Catfish Blues” . Se continua così sembra un nome sicuro per gli anni a venire.

Eddie C. Campbell (foto Mike Stephenson ©)

Ma anche il seguito è di livello, la ChicagoBluesRevue, con i “soliti sospetti”, Kenny Smith, Billy Flynn, Bob Stroger, Barrelhouse Chuck e Bob Corritore ad accompagnare da par loro un terzetto di chitarristi della vecchia guardia. Comincia Elmore James Jr. che, malgrado qualche incertezza con la chitarra, viaggia spedito sulle orme paterne per repertorio e stile, con “Baby Please Set A Date” ma soprattutto con “Steppin’ With Elmo” che è forse il suo marchio di fabbrica. Tonico anche John Primer in forma smagliante sia quando ha sfoderato la slide su Called My Baby Last Night” sia su  blues più rotondi che avrebbero probabilmente strappato un sorriso d’approvazione anche ai suoi maestri di un tempo come Sammy Lawhorn o Muddy Waters. Bello anche il set di Eddie C. Campbell, diverse riprese come “The Things I Used To Do” ma soprattutto una superba versione di “All Of Your Love” in cui sembrava davvero aleggiare l’ombra dell’amico Magic Sam. Stravolgente, in quanto inattesa e fuori da ogni canone preventivabile, la sua versione di “Summertime”, in quanto prova d’esame di come la sua fantasia interpretativa non sia affatto scemata. E ciò ci permette di perdonargli l’abusata, e per noi fuori tempo massimo, esibizione chitarristico-linguale…

Barbara Carr (foto Philippe Pretet ©)

In chiusura di serata da Saint Louis, Missouri ecco Barbara Carr, che a dispetto di un recente CD prodotto da Johnny Rawls, si presenta con una band senza fiati, il cui apporto finisce per risultare quello di un suono troppo duro e senza dinamiche. Ci si aspettava un concerto dai toni soul/blues, ma così non è; la voce della Carr rischia di non trovare la sua migliore espressione, con un suono sembrato troppo secco. Il repertorio attinge a pagine del passato e del presente come “Come On Home”. La Carr invita poi sul palco il giovane Marquise Knox  per un medley blues, una festa ed una investitura del Saint Louis Blues, dal nostro lato dell’oceano.

La serata di venerdì si apre con la bella performance della californiana Sista Monica, molto positiva nella prima parte con un omaggio a quattro grandi colleghe scomparse (Katie Webster, Koko Taylor, Etta James, Ruth Brown), “Pussycat Moan”, una “Hug Me Like You Love Me”  scaturita da una frase di B.B. King. Ma sono belle anche “Tears” o “Walk Around Heaven”. Nel finale concede qualcosa al pubblico “Blues Is Alright”, ma si dimostra performer generosa, tiene il palco con autorità e la band è all’altezza, e di rilievo ci è parso il contributo di Danny Beconcini alle tastiere/organo Hammond.

Segue la Golden State / Lone Star Revue, per un set texano-californiano con Little Charly Baty, il sempre apprezzabilissimo Anson Funderburgh e l’armonica di Mark Hummel. Sono validi musicisti ma lo stile in economia di Funderburgh, apprezzabile sul tributo al T-Bone Walker di “The Hustle Is On”, non sempre si sposa alla perfezione con quello di Baty, e si avverte la mancanza anche di un cantante di maggior personalità, anche se bisogna riconoscere ad Hummel di fare del suo meglio, specie su pezzi come “I Don’t Know”.

Cedono quindi il palco all’atteso concerto di Irma Thomas che, accompagnata da una band molto professionale e forse  un filo calligrafica, con sezione fiati inclusa, sfodera con piglio e vocalità non intaccata dal passare del tempo (davvero dalla sua parte), i brani che hanno incastonato la sua corona di Soul Queen of New Orleans, da “Ruler Of My Heart” a “Time Is On My Side”, passando per una bella “Loving Arms”, l’omaggio all’Otis Redding di “I’ve Been Loving You Too Long (To Stop Now” per finire con “Simply The Best”. Un solo appunto: la Thomas ci è sembrata molto dentro la parte, cioè un mettere in mostra la propria statura passata a scapito della partecipazione all’evento. Blues rock adrenalinico per Guitar Shorty, ritmi molto serrati, sulla scia dei recenti dischi pubblicati dall’Alligator; Shorty riversa energia a pioggia sul pubblico, che sembra apprezzare, specie i momenti, per così dire, più controllati, quali “Too Late”. Il finale è costituito da una chilometrica versione di “Hey Joe”, oltre venti minuti, ma a sorpresa il pubblico di nuovo lo reclama e Shorty si concede un altro lungo excursus strumentale.

Sista Monica (foto Philippe Pretet ©)

Siamo alla serata conclusiva e apprezziamo per la prima volta il talento di Earnest “Guitar” Roy, mississippiano figlio d’arte, in passato sidemanal fianco di Big Jack Johnson e Frank Frost, ora cantante e chitarrista alla testa di una band affidabile, dove al basso c’è la nostra vecchia conoscenza Carla Robinson (già con John Weston). La musica di Roy deve qualcosa ai maestri citati, ha una semplicità diretta che la rende godibile, non scopiazza sonorità soul-blues che vanno per la maggiore, canta bene e attinge molto al suo disco “Going Down To Clarksdale”. Dà vita ad un concerto molto apprezzato cui Anson Funderburgh si unisce nel finale.

Anche il californiano, almeno quanto a residenza, Josh Smith, era una nuova conoscenza e portava in dote il nuovo album edito dalla CrossCut. La band includeva anche una sezione fiati e Smith ha cominciato con uno strumentale, rivelandosi un buon manico, tuttavia non ci è parso centrato a livello vocale, specie per le sonorità che cercava di proporre, emblematica in tal senso la resa di “Bad Side”. Poi torna Charlie Musselwhitee ancora una volta lascia la sua impronta. La band gira benissimo, imperniata sulla batteria di June Core, e anche il giovane Stubbs stasera sembra più ispirato negli assolo alla chitarra. Quanto a Charlie, che dire? Ormai è in una categoria a sé stante, per personalità e dedizione al blues, la sua armonica non ha bisogno di sembrare virtuosistica, scava note profonde e dense ed il suo canto porta con sé tutta la sua esperienza, umana e musicale. Bellissime “Strange Land” e “It Ain’t Right”, da par suo la rilettura di un brano del grande Tony Joe White “As The Crow Flies”, l’omaggio a Little Walter “One Of These Mornings”.

Rosie Ledet (foto Mike Stephenson ©)

E ancora la cavalcata “Wild Wild Woman” o “River Hip Mama”. Gran finale, pieno di lirismo e nostalgia, sulle note di “Cristo Redemptor”. Blues sopraffino. Come oramai da tradizione, chiude un gruppo di zydeco, in questo caso Rosie Ledet & The Zydeco Playboys. La Ledet ha presenza sul palco e una carica nettamente superiore alla media, specie in un genere, lo zydeco, dominato da artisti maschi. I suoi brani sono a volte salaci e vagamente maliziosi, invita alle danze un pubblico che abbandona ogni resistenza e dà fondo alle energie residue dopo tre giorni di musica.

Il festival di Lucerna si dimostra in buona salute, un approdo sicuro per chi è in cerca di buon blues, al punto che senza dubbio ricorderemo questa diciottesima edizione tra le più positive del recente passato.

Matteo Bossi

Marino Grandi

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