MUDDY WATERS - DAL MISSISSIPPI DELTA AL BLUES DI CHICAGO

Era “Can’t Be Satisfied. The Life and Times of Muddy Waters” di Robert Gordon, che usciva in America nel 2002, ma che non ebbe modo di suscitarci la solita invidia di poter leggere direttamente qualcosa di approfondito sul più influente bluesman del Dopoguerra, perché la traduzione italiana fu presto accolta da un’edizione nostrana del 2005.

Oggi, della fantastica disamina “d’autore” su Muddy Waters, possiamo rileggerne nella riedizione 2021 per Shake Edizioni, che un’altra volta ci permette di accedere a lavori di tal fatta, che si diceva, troppe volte abbiamo avuto a conoscere solo di riflesso.

La ricerca di Gordon invece possiamo apprezzarla in toto nelle sue più di quattrocento pagine, per ciò che è a pieno titolo il minuzioso racconto di vita, morte e miracoli di mr. McKinley Morganfield, qui inteso come una storia “Dal Mississippi Delta al Blues di Chicago”.

Un’opera assieme compilativa e sul campo, se a detta dello stesso Gordon, è il frutto di riscontri da “…quegli scrittori che hanno divulgato le informazioni che avevano raccolto, gli amici e i famigliari di Muddy che si sono aperti nelle interviste, e i compagni di band di Muddy, che mi hanno permesso di irrompere continuamente nelle loro vite, sono stati franchi e disponibili e hanno condiviso con me le loro fotografie e i loro ricordi”.

Un immenso lavoro di ricostruzione, se poi l’autore ci confessa anche che: “Quasi tutti gli amici intimi dei primi tempi di Muddy in Mississippi e a Chicago erano passati a miglior vita ancor prima che cominciassi”. Come il lavoro di un investigatore in corsa contro il tempo allora, quello di Gordon, è qui come di un “cerbero sulle tracce” di una figura che incarna essa stessa il blues.

E attraverso la biografia di un uomo, anche col sottotitolo scelto per questa riedizione, si rende bene l’idea di un viaggio che è poi il viaggio stesso del blues, per ciò che quella stessa vita ha rappresentato: sia come archetipo dell’uomo afroamericano, nel passaggio dalla campagna alla città; sia come musicista, nella traduzione del suono acustico dei campi in quella modalità elettrica divenuta nientemeno che il blues urbano, modernizzazione del blues e, come ebbe poi a riconoscere lo stesso Muddy, paternità di “..un figlio chiamato rock’n’roll”.

Il contesto d’intorno ha fatto il resto, con la fragorosa città di Chicago, che spaventava Muddy e qualsivoglia ragazzo di campagna (nel suo caso, Issaquena, Mississippi, e non Rolling Fork, come spesso raccontava) ma che pure aveva visto giusto dal momento in cui pensò di trasferirvisi, due anni dopo che Alan Lomax e John Work III, un nero, lo registrarono, com’erano soliti fare, sul campo.

Un giorno di agosto del ’41 in una baracca della Stovall Plantation, e quando Muddy ricevette poco tempo dopo un assegno e due copie di quello stesso disco, cominciò a maturare l’idea di spostarsi in città. Se la volta di St. Louis non fu quella buona, quel treno da Clarksdale nel 1943 in pratica, gli cambiò la vita. Chicago fu la città della Aristocrat, che lo scritturò e poi divenne Chess Records; di Phil e Leonard Chess col figlio Marshall, attorno a cui hanno ruotato i comprimari di quella stessa scena, nel posto giusto al momento giusto: Otis Spann, Little Walter, James Cotton e Willie Dixon, per citarne alcuni; quindi il rivale Howlin’ Wolf e altri personaggi di una vicenda musicale, che si legge come un romanzo: Sunnyland Slim, Pinetop Perkins, Ernest “Big” Crawford, Leroy Foster “Baby Face”, Elgin Evans, Calvin Jones, Willie “Big Eyes” Smith o Fred Below.

E poi le innumerevoli donne e mogli, e i figli: non soltanto nel senso più vero del termine, ma anche in quel senso figurato, di figli bianchi del rock’n’roll e del blues inglese che nelle strade e nei locali, nei quartieri di quella città medesima, protagonista ed epicentro di questi aneddoti, ne hanno accolto l’eredità.

Non lesina sulle parole nemmeno Keith Richards, di cui il libro vanta la prefazione (e non poteva essere altrimenti, se gli Stones e il loro chitarrista devono a Muddy la loro stessa identità, più ancor che un nome preso a prestito da una canzone sulla prima facciata dell’album “The Best of Muddy Waters”): “…nel dopoguerra a Chicago hanno cominciato ad alzare la voce.

Per adeguarsi al tono particolarmente fragoroso di quella città, la musica si è trasformata in blues urbano. Inventavano a mano a mano che andavano avanti: nessuno sapeva niente della chitarra elettrica o di come si facesse a registrarne il suono. Uno stupendo caso di sperimentazione allo stato puro”. Esperimento riuscito, senz’altro, e questo libro, curatissimo per fonti, note, bibliografia e discografia, ne è la miglior relazione in circolazione. Imprescindibile.

Matteo Fratti

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