Deep Soul & Gospel: l’eredità continua di Matteo Bossi e Silvano Brambilla

Pochi artisti hanno una voce come la sua, in grado di trasportare l’ascoltatore in una sorta di altrove emotivo. Rispetto a qualche suo contemporaneo gli è forse sfuggito qualche hit, ma la sua carriera, cominciata oltre mezzo secolo fa, lo ha portato ad alternare con coerenza e credibilità gospel e soul. Lo abbiamo ammirato in concerto più volte, specialmente (ma non solo) al festival di Lucerna, dove è un beniamino del pubblico e una presenza costante negli anni (il suo concerto del 2003 è immortalato su CD). Lo scorso novembre è arrivato infine il momento di incontrarlo per un’intervista; la iniziamo rassicurati proprio da Otis, sulle condizioni di salute del suo sassofonista, accasciatosi per un malore durante il concerto della sera precedente.

Sei nato in un piccolo paese del Mississippi,Waxhaw.

A dire il vero non era nemmeno un paese, praticamente un incrocio con un gruppetto di case. La mia era una famiglia numerosa, eravamo nove tra fratelli e sorelle, io ero il più piccolo, perciò c’era sempre da fare. Era una vita semplice in campagna, tra casa e in chiesa la domenica. Cominciai proprio in chiesa a cantare. Ascoltavamo la radio, c’erano parecchie stazioni, bianche e nere, musiche diverse, gospel, blues, ma anche country and western. Specialmente al sabato sera ascoltavamo la Grand Ole Opry, conoscevo moltissimi artisti e tutte le loro canzoni, ancora oggi ascolto di tutto, a prescindere dal genere trovo sempre qualcosa di interessante.

Poi vi trasferiste a Chicago?

No, prima ci siamo trasferiti a Muncie, nell’Indiana, per qualche tempo, ci abitava mia sorella e abbiamo ancora molti parenti lì. A Chicago ci abitavano il nonno e lo zio, perciò era solo questione di tempo prima che li raggiungessimo. Erano gli anni della grande migrazione e Chicago era una delle mete più frequenti. Al tempo non pensavamo assolutamente allo scenario musicale, anzi a dire il vero nonostante canti da sempre, non ho mai pensato a una carriera come cantante. E’ semplicemente successo.

Come hai iniziato a cantare gospel?

E’ stata una cosa naturale. Il gospel è alla base di molta musica e noi siamo cresciuti in chiesa, era quello il luogo dove ci si ritrovava. Cantavo con membri della mia famiglia, nel 1953 ricordo che con mia madre, mia sorella, un cognato e qualcun altro, ci chiamavamo The Morning Glories.  Già a dodici anni cantavo con altri gruppi, che capitavano in città. Poi qualche anno dopo mi sono unito ai Golden Jubilaires, avevo più o meno quindici anni.

Cantavi con loro a Chicago?

Sì, anche a Chicago, ma in realtà il gruppo era originario di una cittadina del Missouri, Moberly. Cantavamo in varie città, viaggiando parecchio, a volte in una sorta di pacchetto con altri gruppi. Non si trattava di gruppi famosi. Solo qualche tempo dopo  i Soul Stirrers, con i quali poi ho cantato anch’io, i Dixie Hummingbirds, i Sensational Nightingales, Swanee Quintet…

Poi passasti con i Famous Blue Jay Singers?

Avevo diciotto anni e loro erano un gruppo già affermato. E’ stata la mia prima esperienza a livello professionale, mi unii a loro nel 1960.

Qualche anno dopo, un po’ come fece Sam Cooke, sei passato dal cantare musica sacra a quella secolare.

La differenza nel mio percorso è rappresentata proprio dall’esperienza coi Blue Jay, che mi ha preparato in un certo senso ad uscire dal mondo del gospel. Eravamo un gruppo di jubilee, ma in realtà non facevamo solo musica sacra, nel repertorio avevamo anche molti pezzi che definirei di varietà.  Di per sé jubilee è un tipo di musica che assomiglia un po’ al rap, è costruita più sul ritmo ma ci sono delle chiare analogie.

Come è avvenuto il passaggio dal cantare in un gruppo al farlo da solista?

Quando facevo parte dei Pilgrim Harmonizers, andai ad un’audizione organizzata dal mio amico Cash McCall, era presso la sede della King, infatti c’erano Sonny Thompson e altri produttori. Uno di loro alla fine mi avvicinò e disse che era interessato a farmi cantare musica secolare, mi lasciò un biglietto da visita e disse che mi avrebbe chiamato.

Le tue prime incisioni soliste avvennero per la One-Derful! di George Leaner?

No, in realtà avevo inciso alcuni pezzi per la Columbia ma non furono mai pubblicati. Poi, in effetti, giunsi alla One-Derful!, che pubblicò i miei primi dischi.

“That’s How It Is” divenne un successo.

Sì, ma arrivò dopo, nel 1967, cominciai a registrare per loro già verso la  fine del 1964. Tra l’altro ora la Secret Stash di Minneapolis, ha intrapreso una serie di riedizioni delle varie etichette di Leaner, non solo la One-Derful!, molto curate e con parecchi inediti.

Come è stato riascoltare quel materiale dopo tutti questi anni?

E’ stato molto interessante, anche per me che quegli anni li ho vissuti, quasi sorprendente per certi versi. Non avrei mai pensato che molto di quel materiale fosse ancora così buono. Penso che per qualcuno, che non ha familiarità con quelle incisioni, possano essere davvero una rivelazione.

Come ricordi la scena del soul di Chicago di quegli anni? C’erano artisti come Tyrone Davis, McKinley Mitchell…

Erano bei tempi per la musica e l’ambiente musicale, molto stimolanti, molto creativi. C’erano personaggi come Tyrone Davis, Jerry Butler, Gene Chandler, Curtis Mayfield…siamo tutti della stessa generazione e ognuno è diventato un artista con una personalità distinta, cresciuti nello stesso periodo. Poi c’era la scena di Memphis e quella di Detroit, la Motown…erano le prime fasi. Era un periodo fervido, anche competitivo, in cui ognuno cercava di tirar fuori il meglio da sé stesso per essere all’altezza degli altri. C’era sempre una connessione con il passato, per come la vedo io, anche se si parlava di musica nuova, soul, quella musica proveniva in parte dal gospel, specialmente dai quartetti e dal doo-wop. In questo senso ci sono musicisti capofila, che hanno aperto la strada.

Ti riferisci a qualcuno in particolare?

Beh, ascoltare R.H. Harris il primo solista dei Soul Stirrers, è stata una influenza enorme per tanti di noi. E poi certo Sam Cooke! E ancora i fratelli Crume;  Leroy  tra l’altro mio buon amico è morto qualche settimana fa. A differenza forse di altre città il gospel a Chicago era ancora molto popolare e tenuto in grande considerazione. Poi certo se andavi ad esempio a Philadelphia c’erano i Dixie Hummingbirds, che però venivano dal South Carolina. Il fatto che il gospel fosse così popolare, si traduceva anche nella musica soul e nella sua struttura.

Qual’era la differenza che percepivate allora tra la Motown, la scena di Chicago e quella di Memphis?

 La Motown all’inizio operava anche a Chicago, Smokey Robinson registrò “Shop Around” e alcuni altri pezzi a Chicago. La musica era diversa, ma in fondo  non lo era così tanto. Poi c’era un aspetto locale, regionale anche nella ricerca dei nuovi talenti, tutti cercavano di sfruttare la scena locale, di Chicago o Detroit. Dal mio punto di vista l’intento di ognuno era quello di sviluppare un proprio suono, lasciare una propria impronta. Tuttora è quello che cerco di fare io stesso, il suono è il mio interesse principale. La prima cosa che voglio sapere quando produco un disco è come suona la batteria, poi da lì, da quella base, costruisco tutto il resto. A Memphis facevano lo stesso. Inoltre lì e anche a Muscle Shoals, più che altrove, c’era molta interazione tra musicisti neri e bianchi e questa cosa era ancor più significativa perché di tutti i posti possibili, avveniva nel Sud. Il fatto singolare era appunto che un nutrito gruppo di bianchi suonasse essenzialmente musica nera; si veniva a creare una commistione di suono unica.

Hai citato Muscle Shoals, se non andiamo errati, proprio lì registrasti “She’s About A Mover”.

Esattamente. Era il 1968, incidevo per la Cotillion e mi inviarono a registrare a Muscle Shoals.  All’epoca Rick Hall aveva ancora la sezione ritmica originale, ma la sezione fiati veniva da Memphis. Giusto per proseguire il discorso di poco fa, si conoscevano tutti tra loro e c’era molta collaborazione, i musicisti passavano del tempo insieme e questo rendeva la musica migliore, più creativa. C’erano più connessioni che differenze anche se, ovviamente, si poteva distinguere quello che veniva dalla Motown e quello che veniva, diciamo da Memphis e Muscle Shoals, in generale dal Sud.

Inevitabile chiederti del tuo approdo alla Hi e del rapporto con Willie Mitchell.

Devo premettere che nella mia carriera c’è sempre stata, in momenti diversi, una figura di riferimento, qualcuno da cui ho imparato e cui mi sono potuto rivolgere per un consiglio. George Leaner, il fondatore della One-Derful è stato senza dubbio molto importante per me, ma ce ne sono stati altri come Odell Carter, in campo gospel da quando avevo quindici anni. Willie aveva già prodotto la mia ultima session per la Cotillion era per me più di una sorta di mentore, quasi un padre. Con lui, come con Leaner, la situazione che si veniva a creare era quella di una famiglia, un padre che dà consiglio ad un figlio; non è mai stata questione d’affari con loro, ma solo personale, pensando a cosa era meglio per la vita di una persona. Poi chiaramente dal punto di vista musicale Willie mi ha insegnato tantissimo; era produttore geniale, parlavamo molto. Aveva un passato nelle big band, perciò sapeva come arrangiare, incorporare i fiati anche in un piccolo ensemble, costruire il suono adatto per il cantante mettendo insieme elementi diversi.

All’epoca alla Hi c’erano Al Green, Syl Johnson, Ann Peebles…

Al c’era fin dall’inizio, anche se non era ancora molto famoso, prima ancora c’era Earl Randle, cantante nella band di Willie. Ann Peebles era sotto contratto prima di me e Syl Johnson.

Avevi inciso un pezzo con Johnson come produttore?

Ah sì, ero ancora con l’Atlantic/Cotillion, prima della Hi. Un giorno passai nell’ufficio di Syl Johnson, lui mi fece sentire un pezzo, che però non era finito. Mi disse di andare a casa e provare a finire di scriverla e poi propose di registrarla insieme. Ed è proprio quello che abbiamo fatto, la canzone si intitolava “Hard Working Woman”.

Hai sempre avuto delle ottime band, composte quasi esclusivamente da afroamericani.

Ah non sempre! Ad esempio ho avuto Greg Rzab, che è uno dei miei bassisti preferiti.

L’ex bassista di Buddy Guy?

Già, lasciò il mio gruppo per andare a suonare con Guy. Ma preferisco parlare di buoni musicisti, indipendentemente dal colore della pelle, conta solo la musica.

Come è nata la tua prima tournèe in Giappone nel 1978?

Non sapevamo molto del Giappone, né della cultura, né che fossero così appassionati alla nostra musica. Forse ci erano stati James Brown e Wilson Pickett ma per il resto ci scherzavamo sempre su, tra noi musicisti, dicendo cose come «hey dove hai preso quel microfono giapponese?» Poi vennero fuori con tutta questa tecnologia avanzata e smentirono d’un colpo le nostre battute. Quando arrivai in Giappone e registrammo il primo “Live” dal tour del 1978, rimasi stupefatto che riuscissero a registrare dal vivo e a catturare il suono della band così bene, pensavo si potesse avere quella resa solo in uno studio. Lavorando con quei tecnici giapponesi imparai molto sui metodi e le tecniche di incisione. Credo che pochi altri abbiano avuto lo stesso successo per quanto riguarda registrazioni in Giappone, forse qualche jazzista, ma non ne sono sicuro!

Come sei riuscito ad avere la sezione ritmica della Hi per il tour del 1983 e disco dal vivo che ne venne tratto?

L’idea è stata mia e l’abbiamo potuta realizzare solo grazie alla popolarità che avevo acquisito in Giappone, ci ero ritornato per altri tour nel frattempo. Tieni presente che negli anni Settanta nessuno poteva permettersi di portare in tour la sezione ritmica Hi, nemmeno Al Green, che pure aveva avuto hit da diversi milioni di copie vendute.

C’è un disco tra tutti quelli che hai inciso che pensi ti rappresenti  meglio di altri?

Beh, penso che ci sia una grande parte di me in tutta la musica che ho registrato. Non riesco a individuare un genere o un disco in particolare. Anzi a volte ho scoperto che un disco gospel è riuscito a trovare inaspettatamente un pubblico secolare, o viceversa un disco di rhythm and blues è stato spesso apprezzato anche da chi ascolta gospel. Il contenuto, il genere, di quello che registri conta fino ad un certo punto, probabilmente uno dei segreti di un brano di successo è un meccanismo di identificazione che scatta nell’ascoltatore, a prescindere dal genere. Se un disco è divertente lo è, anche se magari si tratta di gospel.Nella musica credo funzioni così, se ti piace una canzone, non devi necessariamente spiegarne il perché, ti piace e basta. Per questo non credo ci sia un disco che mi descriva meglio di un altro, sia che parliamo di gospel che di soul / blues. Del resto uno dei titoli gospel per i quali sono più noto, “His Precious Love”, un pezzo di Leroy Crume, viene in realtà da un concerto secolare, quello del secondo disco dal vivo in Giappone.

Potresti raccontare come nasce la collaborazione con Johnny Rawls? Con Johnny ci conosciamo da anni, veniamo da un background molto simile.

Lui ha suonato per anni con O.V. Wright.

Vero. Anche con O.V. abbiamo avuto un percorso simile. O.V. ed io ci siamo incrociati per la prima volta quando avevo sedici anni ed entrambi cantavamo gospel, lui coi Sunset Travellers. In un certo senso ci conoscevamo ancora prima di incontrarci, perché frequentavamo lo stesso ambiente e avevamo sentito parlare l’uno dell’altro. Poi siamo diventati amici e ci comprendevamo molto bene. Mi capita ancora oggi di incontrare musicisti o comunque persone del music business della mia generazione e scoprire che conoscevamo le stesse persone. Con Johnny succede lo stesso, abbiamo cominciato a lavorare insieme parlando delle persone che conoscevamo nell’ambiente musicale. Tutto è cominciato due anni fa quando ha inciso “Remembering O.V. Wright”, mi aveva invitato a cantare alcuni pezzi e poi le cose sono proseguite fino ad una nuova collaborazione, “Soul Brothers”.

Cosa ti ha spinto a creare una tua etichetta, la Echo?

Era il 1975 e non avevo un contratto con nessuna etichetta, perciò quasi mio malgrado mi decisi a fondarne una mia. Non è stata una scelta pianificata, però devo dire che ha funzionato e alla fine mi ha permesso di avere più libertà. A volte un’etichetta vuole farti incidere un certo tipo di materiale o spingerti in una direzione in cui magari non vuoi davvero andare. Ero con la Hi fino a poco prima e credo che la convinzione di riuscire a produrre da me i dischi, mi sia venuta proprio osservando da vicino lavorare Willie Mitchell. Mi dicevo semplicemente che potevo riuscire a farlo anch’io, non che fossi ribelle o volessi cercare di dimostrare per forza qualcosa.

Giusto per curiosità, ti ha mai contattato la Malaco?

In quegli anni produceva parecchi artisti di soul, come Tyrone Davis, Johnnie Taylor, Bobby Bland o Z.Z. Hill. Con la Malaco ai tempi si era parlato di pubblicare il primo disco dal vivo in Giappone, quello del 1978. Potevo darglielo in licenza, non mi costava molto perché, con la JVC, ero comproprietario di quel disco. Ma alla fine non se ne fece nulla, credo non fossero del tutto convinti, forse perché cantavo soul ma anche gospel come “When The Gate Swing Open” e per loro non andava bene. Ma io sapevo che quel materiale era buono e alla fine sono riuscito lo stesso a cavarmela senza problemi, addirittura producendo un secondo album dal vivo nel 1983 senza dovermi autofinanziare.

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Sappiamo che sei coinvolto in diversi progetti sociali e comunitari a Chicago.

Mi sono occupato della creazione dell’Harold Washington Cultural Center, un centro culturale che sorge dove un tempo c’era il Regal Theater nel quartiere di Bronzeville. Quello che stanno organizzando ora è un progetto di teatro per togliere i ragazzini dalle strade e metterli su un palco, tenerli lontano dai guai, attraverso l’arte spesso si aprono per loro prospettive inaspettate. Abbiamo lavorato tramite l’associazione Tobacco Road Incorporated, ricostruito il vecchio Regal praticamente da capo e contribuito a far sì che diventasse un centro vivo. Un altro progetto si chiama People For New Direction ed è incentrato su iniziative per la comunità. Stiamo pensando anche di fare qualcosa legato alla mia partecipazione al film documentario “Take Me To The River”, proprio per l’aspetto trans-generazionale; vorremmo portare in tour una sorta di spettacolo a tema. L’ideale sarebbe coinvolgere e collaborare con  artisti giovani del posto, se possibile in ogni città che toccheremo.

Ci sono dunque giovani soulmen a Chicago o altrove, con i quali potresti collaborare?

Tutto è cambiato rispetto al passato, la  società, la musica, il modo di produrla e commercializzarla. E’ difficile pensare che una musica possa avere lo stesso impatto che ebbe in passato. Venendo al punto dei giovani artisti, beh avendo settantadue anni una domanda che mi pongo è la seguente: chi porterà avanti questa musica quando io non potrò più farlo? Per me c’è sempre stato qualcuno cui guardare, artisti che mi hanno ispirato col loro esempio. Oggi è diverso ma la sfida è creare  delle condizioni favorevoli, un ambiente che possa stimolare l’emergere e la crescita di giovani musicisti. Non si tratta di insegnare loro qualcosa di vecchio, ma qualcosa di giusto, dopo che per anni gente che non capisce nulla di musica ha lasciato solo macerie dell’ambiente musicale.

Hai in mente qualche  giovane e promettente cantante di soul? In verità…no! Ma ce ne devono pur essere da qualche parte, come dicevo, bisogna ricreare l’ambiente giusto e magari ci sorprenderemo di quanti talenti verranno fuori. In fondo è quello che cerchiamo di fare all’Harold Washington Center.

Fare in modo che l’eredità culturale prosegua.

Esattamente. E’ buffo che tu abbia usato proprio questa espressione, perché il titolo di lavorazione del mio disco di qualche anno fa, “Walk A Mile In My Shoes”, era in realtà “The Legacy Continues”! All’inizio doveva essere un intero album con i Soul Stirrers, ci stavo lavorando con Arthur e Leroy Crume, poi loro per problemi di salute non hanno potuto finire il disco; allora l’ho pubblicato a mio nome con un titolo diverso da quello che avevamo pensato insieme. (Intervista realizzata a Lucerna, Svizzera, il 15  novembre 2014)

 

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