Robi Zonca, bluesman della “vecchia guardia”, un pozzo di aneddoti e storie, un musicista bravissimo e un punto di riferimento del blues orobico.
A lui e agli altri che hanno fatto tanto per la scena Blues italiana dovremmo essere tutti grati.
Lo ha intervistato per noi il nostro collaboratore Andrea Capelli.
“Non basta che abbia 12 battute per essere blues, in tanti si fanno prendere dalla tecnica ma poi perdono il blues, quella nota lì. Il blues è fatto di coltello che ti entra nello stomaco”
Ho conosciuto Robi Zonca quando, dopo un lungo periodo di allontanamento dallo strumento, ho deciso di riprendere a suonare la chitarra. A distanza di un paio di anni ho avuto il piacere di farci una chiacchierata e si è parlato di blues: del passato e del futuro della musica del diavolo.
Robi è il simbolo del blues bergamasco e oggi, a 69 anni, è custode di preziosi aneddoti e storie di blues di un’epoca, quella degli anni ’70, fatta di chitarre acquistate in negozi di elettrodomestici e di real book, che oggi sembra così lontana.
L’intervista a Robi Zonca
Robi, possiamo dire che in qualche modo sei un riferimento del blues bergamasco. Vorrei fare con te un percorso storico, dagli inizi, da come il blues è arrivato in Italia, alla scena di oggi
Io sono cresciuto ascoltando il British Blues, perché qui da noi sono arrivati i Beatles, che ho ascoltato tantissimo e che hanno avuto un’influenza nella musica che ho prodotto nei miei dischi. Però dopo i Beatles e gli Stones è arrivata la British invasion: John Mayall con Eric Clapton, con Peter Green, con Mick Taylor, e quelle canzoni le imparavo ad orecchio. All’epoca non c’erano le risorse che ci sono oggi, i tutorial su youtube. A quel tempo, se volevi imparare un pezzo, dovevi fare tutto a orecchio.
Poi, sulla copertina di un disco di John Mayall erano raffigurati cartelli con i nomi dei bluesman a cui si ispiravano i musicisti inglesi, ad esempio Otis Rush. Da lì in poi ho iniziato ad ascoltare anche un po’ di quel Blues. Però è il British che mi è rimasto.
Quando hai deciso che avresti fatto il musicista?
Non l’ho mai deciso. Non ho mai deciso nulla. Ho vissuto una vita incasinatissima e disordinata, non ho mai preso decisioni, ho vissuto tutto quello che mi capitava addosso.
All’epoca suonavo con un gruppo che, partendo dal nome “John Mayall and the bluesbreakers”, per fare gli spiritosi abbiamo chiamato i Bluesaggiusta, con cui abbiamo fatto diverse cose.
Come era la scena blues degli anni ’70? Il blues è arrivato in Europa con i Rolling Stones?
È arrivato con i Rolling Stones ma in modo inconsapevole, perché noi non capivamo di preciso. Poi con John Mayall abbiamo capito le 12 battute, ecc…
E come era la scena blues?
Prima di tutto erano in pochi a suonare. Io la Gibson l’ho ordinata in un negozio di frigoriferi. Non c’erano negozi con le vetrine piene di Fender, non c’era niente. Noi suonavamo abbastanza professionalmente nei locali da ballo, con i Bluesaggiusta, e la gente ballava. Come shake facevamo Satisfaction e quando suonavamo blues lenti le persone ballavano. Oggi se gli fai un blues lento il pubblico non apprezza. Erano completamente altri tempi.
Il pubblico era educato al Blues? Esisteva un popolo del Blues o anche all’epoca era una scena di nicchia?
Era assolutamente di nicchia, però lo conoscevano. Ad esempio, nella mia compagnia eravamo in venti, io ero l’unico che suonava, ma gli altri conoscevano il Blues perché ascoltavamo gli stessi dischi.
Era un genere di nicchia, poi sono arrivati Fabio Treves, Tolo Marton, e altri.
Tu hai conosciuto i grandi, sei stato il bassista di Mia Martini, quali altri incontri artistici ricordi?
Un giorno ero a suonare al Pistoia Blues con Andy Forest e ho incontrato Steve Ray (Vaughan ndr) nei camerini, ci siamo sorrisi e stretti la mano, quasi me la sfonda, è stato molto bello.
E del concerto che hai aperto a B.B.King che cosa ti ricordi?
Mi ricordo che da quel concerto, con la band di Andy Forest, abbiamo cambiato tantissime cose. Ascoltando quel concerto abbiamo imparato tanti licks, tante cose che funzionano. Ad esempio lo stop dopo un assolo di slow, con il basso che sul quarto grado scende moltissimo di dinamica e B.B. che lancia un bending. Abbassare la dinamica per fare uscire più forte la lead.
Nella band di Andy Forest c’era Vince Vallicelli, uno dei migliori batteristi di Blues in Italia, che veniva dal prog, quindi due casse, tantissimi piatti. Dopo quel concerto anche lui si è esaltato e da lì è diventato sempre più bravo perché ha iniziato ad ascoltare quelle cose.
Come hai conosciuto Andy Forest?
L’ho conosciuto quando ero a Parigi e suonavo per strada con il contrabbasso. Ci sono andato con Tracanna, un sassofonista bergamasco.
Io non ho suonato solo Blues, mi sono interessato anche molto al jazz. Siamo negli anni ’70, all’epoca suonavo con un gruppo che si chiamava Zigurat, con Tino Tracanna, Claudio Angeleri e Robi Marchesi alla batteria. Con Tracanna e Marchesi siamo andati nella Camargue francese e una sera siamo andati a Saint Tropez, ci siamo messi a suonare per strada e abbiamo fatto un sacco di soldi. Allora ci siamo detti: “andiamo a Parigi”, e siamo partiti. Siamo stati nella capitale francese per diverso tempo, suonando nelle strade. Appena arrivati siamo andati a Montmartre alla ricerca di locali, senza strumenti, e da una finestra abbiamo visto e sentito un chitarrista che suonava e siamo rimasti impressionati. Era di una bravura incredibile, ci siamo detti “ma sono così bravi qui?”.
Il giorno dopo andiamo in un negozio a cercare il Real Book, che in Italia ancora non c’era, un libro con tutti i pezzi standard che si suonavano, con tutte le tonalità e le partiture, e nei metodi di chitarra trovo il chitarrista che avevamo sentito il giorno prima: Barney Kessel! “ah ecco perché era così bravo”.
Quando gli altri sono tornati io sono rimasto a Parigi con il mio contrabbasso perché ho conosciuto Andy Forrest. Dopo circa un anno sono tornato in Italia e in quel periodo Fabio Treves faceva successo con il Blues. A quel punto ho scritto a Andy di venire in Italia che avremmo creato un band.
All’ultimo suo concerto a cui ho assistito, Fabio Treves ha chiuso la serata con una cover di Little Milton: The Blues is alright; è davvero così? Il Blues sta bene?
Il Blues è ok se suonato da gente che sa come si suona il blues. Il fatto è che c’è tantissima gente che suona, questo fa emergere tanti bravi che ai miei tempi non avrebbero neanche pensato di suonare. Nella massa però ce ne sono anche tanti molto meno bravi. A volte le Jam session di Blues sono un incubo. Però, quando è fatto come si deve, certo che è alright.
Dal punto di vista generazionale, pensi che il Blues abbia un futuro o è destinato a sparire con la generazione che l’ha portato in Europa? C’è un ricambio generazionale tra il pubblico o tra i nuovi artisti?
Io purtroppo non ricordo i nomi, ma all’ultima Jam session a cui sono stato c’erano due o tre ragazzi bravi che suonano Blues.
Io ho 38 anni, tra vent’anni starò ascoltando ancora i grandi classici del Blues o starò ascoltando qualche giovane bluesman che avrà meno della mia età?
Penso entrambe le cose. Più invecchi più le cose che hai voglia di ascoltare sono quelle dei tuoi tempi. Oggi ad esempio John Mayer è uno che quando suona senti che ha un bagaglio molto chiaro di tutto ciò che è stato. Io penso che tu ascolterai anche artisti nuovi. Oggi il blues è conosciuto da più gente. Certo non puoi paragonarlo al pubblico di Annalisa, ecc… è chiaro che è un genere più di nicchia. Bonamassa è bravissimo ed è stato molto bravo a farsi conoscere.
Vorrei aggiungere che in questo tempo di estremismi social e non, mi definisco un bluesman illuminista e riformista.
I temi classici del Blues, del country, del soul, sono il viaggio, la povertà, la sofferenza, perché nati in un’epoca particolarmente difficile e discriminatoria. Oggi, suonare blues con questi temi, è ancora credibile o è una forma di “radical chic” artistico? Oggi c’è ancora della sofferenza di cui parlare attraverso il Blues?
C’è un pezzo (di David Bromberg ndr) che dice: “You’ve Got To Suffer If Ya Wanna Sing The Blues” ed è verissimo. Io devo dire che la mia quota di sofferenza l’ho data e questo fa la differenza. La credibilità arriva anche da lì. Non basta che abbia 12 battute per essere Blues. In tanti si fanno prendere dalla tecnica ma poi perdi il blues, quella nota lì. Il blues è fatto di coltello che ti entra nello stomaco.
Comments are closed