Sono incappato per caso nella versione live di “I Put A Spell On You” della nostra Samantha Fish e mi ha lasciato spiazzato, e con questo termine intendo quella piacevole sensazione di aspettarsi qualcosa di diverso e di ricevere invece una doccia ghiacciata (in una calda giornata d’agosto ovviamente). Un sound unico e riconoscibile, una voce speciale e caratteristica, quella magica combinazione che, noi lo speriamo tanto, possa portare alla meritata fama di chi di gavetta ne ha fatta tanta e continua a non risparmiarsi, anche se con l’apertura di “I’m Done Running” sembra volerci dire che ormai non è più tempo di agitarsi e “sbattersi”, quanto di iniziare a raccogliere i frutti della (lunga) semina. Ironia, o forse sarebbe meglio dire sarcasmo, sul suo aspetto di donna attraente sembra essere il filo conduttore di questo nuovo lavoro, fin dal titolo “Paper Doll”, dove il termine bambola sottolinea ancora una volta come ci si fermi (tristemente) subito all’aspetto, quando la sostanza è davvero tanta (ricordo ancora la prima volta che la vidi a Notodden come ospite di Mike Zito, una incredibile sorpresa), e come si possa ricadere, ormai senza distinzione di sesso, in rapporti con persone dannose il cui unico effetto sia quello di sminuire la propria autostima e distruggere la propria felicità. Ma la Fish ha energia ed orgoglio da vendere, sia quando suona la chitarra slide, che quando si dedica alla Cigar Box (di cui gestisce un festival che porta il suo nome appunto il “Samantha Fish Cigar Box Festival” a New Orleans”) per non parlare poi di un timbro vocale ormai diventato riconoscibile, capace di passare dalla dolcezza di “Off In The Blue” a cantilene che sfociano in potenti decibel, mai urlati, proprio di “Paper Doll”, con il bellissimo duetto, se dir così si voglia, della voce e delle note della chitarra. “Sweet Southern Sounds” è un tripudio di suoni e colori, quasi si stesse gustando la jambalaya, con mix di spezie e sapori provenienti da quel meltin’ pot che è New Orleans, rappresentante doveroso del sound del sud degli USA, anche se ormai nel 2025, come recitano simpatici commercial scandinavi, un qualunque esame del DNA ci rivelerebbe di avere antenati (o “ancestors” come fa più figo dire) provenienti da posti che non abbiamo mai sentito nominare, a testimonianza che l’unica razza che si possa identificare sia quella umana, fin troppo infestante per il regno animale e vegetale che prima di noi si godeva questo pianeta, e sicuramente lo farà dopo di noi. Immensa “Fortune Teller”, consigliataci dall’amico Matteo Bossi, con un incedere lento nel sound quasi fossero le acque fangose ad accarezzare anse del Mississippi, e la voce sussurrata e sensuale di Samantha, per poi stupirci con un cambio di tempo repentino e galoppata finale, assieme al canto con effetto megafono. In chiusura di disco ancora una volta si passa dall’energia di “Rusty Razor” scritta e cantata a quattro mani (e due ugole) con Mick Collins, note in velocità e preghiere in ginocchio a chi si comporta come un pericoloso rasoio arrugginito, alle atmosfere dolcemente ipnotiche e malinconiche di “Don’t Say It”, il cui argomento è il declino di un amore e, oltre a non voler sentire la parola fine, come tutti noi in un mondo che ormai si parla sopra e non ascolta mai, Samantha ci canta “all I ever wanted is only to be heard”…
Davide Grandi
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