Qualche anno fa, durante una lunga intervista apparsa sul n. 159 de Il Blues, per parlare del suo bellissimo “Mississippi Son” (Alligator), Charlie Musselwhite si era espresso così in merito a quello che sarebbe diventato il suo disco successivo: “E’ già tutto pronto, ma quello sarà il prossimo disco. C’è la band, ma suono anche io la chitarra in un pezzo, mentre in un altro c’è un mio amico rapper di Memphis, Al Kapone. È diventato famoso grazie anche ad alcuni pezzi suoi in un film, “Hustle & Flow”, tra cui “Whoop That Trick”. Mi aveva invitato a suonare l’armonica su un suo disco e allora per ricambiare è venuto a fare rap sul mio. Ma non voglio rivelare troppo!” Ed eccolo allora il nuovo album, intitolato Look Out Highway, edito stavolta dalla Forty Below di Eric Corne.
Ascoltare Charlie è ogni volta un piacere rinnovato, come assaporare un bicchiere di un Barbaresco di una grande annata, significa ritrovare classicità, consistenza e territorialità. Per proseguire l’accostamento, i suoi blues sono espressione di una storia e di una stagionalità antica, plasmati dagli elementi atmosferici, dai venti e dall’esposizione al sole. Non a caso il vagabondare, la strada, habitat naturale del musicista errante, è un riferimento costante in questi testi, (due titoli riportano la parola highway e uno la parola road) e un’altra canzone porta il programmatico nome di “Ramblin’ Is My Game”, un sapido midtempo blues, dove le sciabolate soliste di Andersen dialogano con l’armonica del leader.
Come sonorità siamo vicini ad un grande disco del suo passato come “Delta Hardware”(2006), ruvidamente elettrico, che in copertina riportava l’immagine di un edificio nella cittadina dove Charlie ha, da qualche tempo, scelto di vivere, Clarksdale. Tre quarti della band sono infatti gli stessi di quel disco, vale a dire June Core, Randy Bermudes e Kid Andersen, con l’aggiunta qui di Matt Stubbs che, nel 2008, sostituì proprio quest’ultimo come chitarrista della band. L’ensemble si è ritrovato agli studi Greaseland di Kid (qualcosa è stato fatto anche allo studio di Gary Vincent a Clarksdale) per dare vita a questi undici brani, ispirati e vibranti, con la sua armonica, riconoscibile tra mille, a dipingere pennellate di acquerello e chiaroscuri contrastati, lavorando, come sempre, sull’espressività e non sul virtuosismo.
Tutto scorre perfettamente e la partenza è subito d’impatto, con la ritmica incalzante della canzone titolo, tratta da un ritmo gospel che gli era rimasto in testa. Con “Sad Eyes” siamo di fronte ad uno dei momenti da ricordare, “if you don’t love me, won’t you fool me good, we can have fun”, canta lui con un filo di malizia, narrando di una storia senza futuro e di una ragazza dagli occhi tristi. La sua passeggiata sulla “Highway 61”, Kid è al piano in quest’occasione, è indubitabilmente personale, divertita. Molto bella anche “Storm Warning”, dal ritmo incalzante, la tempesta è una metafora per il ritorno in città di una donna, per così dire, impetuosa.
L’unica cover vera e propria è “Ready For Times To Get Better” (scritta da Allen Reynolds per Crystal Gayle negli anni Settanta, poi interpretata anche da Doc Watson), ospite alla seconda voce una promettente cantante di Clarksdale, Edna Luckett, esprime un augurio condiviso per tante situazioni della vita, ancor più apprezzato provenendo da uno che ne ha viste tante come Charlie.
Particolare anche “Ghosts In Memphis”, in cui i fantasmi del passato si fanno vivi a Memphis, “it’s hard to say who I miss the most, when I walk in Memphis all I see is ghosts”, canta lui con una punta di malinconia per gli amici scomparsi, con un intervento rap di Al Kapone nel finale. Nello slow strumentale “Blue Lounge” è poi Charlie stesso a imbracciare la chitarra slide e a guidare il brano, con qualche citazione, ci sembra, dello stile un grande del passato, che andrebbe riscoperto, qual è stato Earl Hooker.
Il viaggio finisce, almeno per il momento, su una “Open Road” su cui si avventura con la sua donna, scandita ancora da un impeccabile June Core e dalla melodia densa impressa dal “mississippi saxophone” del nostro, in grado di raccontare un pezzo di storia tramite poche note prolungate. Ed è un viaggio appagante, foriero di emozioni quello intrapreso accanto a Charlie, per ogni suo disco, l’ennesimo atto di devozione al blues per un Signore dalla carriera sessantennale.
Matteo Bossi
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