Debuttano su Stax, i Southern Avenue e coi primi due dischi già si distinguono a traghettare nella modernità una tradizione che viene da là, da quell’etichetta storica che molto ha voluto dire per rendere internazionale il sound di Memphis. Non è un caso che il gruppo in questione abbia potuto incarnare tale eredità, non solo per questioni di sonorità (un blues intriso di gospel & soul, non necessariamente in quest’ordine) ma per ciò che viene a significare nel suo costituirsi da un nucleo famigliare, quello delle sorelle Jackson, che (non ne fanno mistero) un po’ ci ricordano le Staple Singers.
E per i Southern Avenue galeotto fu l’International Blues Challenge di Memphis del 2016, se ha fatto conoscere a Tierinii, voce “leader” assieme alle sue “sisters” Tikyra alla batteria e Ava al violino e percussioni, il chitarrista e presto anche marito Ori Naftaly, israeliano approdato a Memphis per il celebre concorso internazionale di blues.
L’Alligator non se le fa scappare e dalla loro prima “uscita” del 2017 al quarto album, il passo è breve. Del 2025 è perciò questo “Family” che, qualora non ce ne fossimo accorti, giunge a rimarcare quel carattere domestico e casalingo della loro produzione che, nella città del blues e del rock’n’roll, vuol dire anche Royal Studios. Lì, da Al Green in poi, ci sono passati in tanti e non è una sorpresa ritrovarci così anche questa storia familiare, come le tante che si avvicendarono un po’, mani nere e mani bianche, sulle strade del Sud: dagli Allman ai Dickinson tra i bianchi, ad esempio, e Luther stesso, che ce lo ritroviamo insieme a loro dal primo disco, amico e “consulente”.
Perché i suoni si incrociano come le strade e se ai crocicchi è nato il blues, a scanso di equivoci, la Southern Avenue medesima era la connessione stradale del punto più a est della città con “Soulsville”, il quartiere dove la casa discografica originariamente risiedeva.
La musica come geografia quindi, e la testimonianza anche nel suono di quest’ultimo lavoro in cui compaiono poi Jeremy Powell alle tastiere ed un ormai compianto Blake Rhea al basso, oltre a Luther Dickinson, appunto, ma anche lui, qui come bassista. Il suo contributo autoriale si sente in “Sisters”, dall’intreccio melodico e corale davvero eccezionale a far uscire le prerogative del combo; così sulla chiusura di “We Are”, dall’incedere più ipnotico, ma sempre vocalmente potente nel tessere i contributi delle sorelle.
Capiamo perché se ne parli così tanto “in città” e avrebbero potuto raccontarceli qualche anno fa come “the next big thing”: non saremmo certo qui a smentirlo! Dall’apertura di “Long Is The Road” allo stacchetto della “title-track”, emerge uno stile tutto loro, al contempo intriso di spunti della tradizione vocale doo – wop col supporto di chitarra & band mai invadenti, ma dal giusto contrappunto per un miglior bilanciamento.
Un sound fin troppo “pulito”, oseremmo dire, che in tempi di imperante “low – fi”, potremmo azzardare che è quanto di meglio possa rendere merito a questi innesti di classicismo vocale in un filone di blues dal più ampio respiro di black-music: soul, r&b e gospel in un’unica formula vincente. Si ascoltino per esempio “Kept On Moving On”, altrettanto solare, o l’incalzante “Back To What Feels Right”, davvero “ballabile”. Se hanno resistito fin’ora, al quarto disco, che rimangano ancora “the next big thing in Memphis”!
Matteo Fratti
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