D.K. Harrell intervista, foto Laura Carbone

D.K. Harrell-I’m Grown Now! di Matteo Bossi

Abbiamo avuto modo di parlare di nuovo con D.K. Harrell, l’emergente chitarrista e cantante originario della Louisiana, fresco di uscita del nuovo, convincente album “Talkin’ Heavy”, il primo su Alligator.

E molto è successo nella vita di questo giovane musicista dall’ultima volta che avevamo parlato a Lucerna, due anni addietro. “Beh, non posso mentirti, devo dare credito al festival di Lucerna per avermi messo davanti agli occhi di altri festival.

Eravamo con la Intrepid ma ci hanno detto che non potevano ingaggiarmi da nessuna parte perché eravamo ormai a metà stagione e in pratica ogni festival era stato già programmato. Penso che Michael (Kinsman, il suo manager n.d.t.) abbia contattato Lucerna ed eravamo nervosi, in attesa.

Dissi alla band di avere i passaporti pronti nel caso la cosa fosse andata in porto. E un paio di mesi prima Michael mi ha mandato un messaggio dicendo, “è fatta. Ma devi suonare al party per gli sponsor oltre che al festival”. E abbiamo avuto una standing ovation al party, cosa che ha significato molto e abbiamo suonato bene anche al festival.

Abbiamo venduto tutti i CD. Eravamo tornati a casa da una settimana e la Intrepid ci ha chiamati dicendo, “ma cosa avete combinato in Europa?” E io, “niente abbiamo solo suonato”. “Continuo a ricevere chiamate per D.K. cosa ha fatto?”.

È stato davvero bello. Ci ha aperto le porte, perché quella performance ci ha permesso di suonare in altri otto o nove paesi. Un grande cambiamento”.

Per quest’album ha lavorato ancora con Kid Andersen, già produttore del suo debutto. E Kid durante la nostra intervista lo scorso anno si era espresso in questi termini riguardo Harrell. “È davvero bravo ed è come fosse mio figlio. Sai si dice che tuo padre sia la sola persona che vuol che tu faccia meglio di lui ed è così che mi sento riguardo a D.K., devo essere suo padre, non importa quel che dica il DNA! (ride)

Spero di fare altri dischi con lui, mi piace per il talento e la persona, ha davvero buon cuore.” Quando lo riferiamo a D.K. all’inizio della nostra conversazione via Zoom anche lui ride e conferma, “si, abbiamo davvero un rapporto padre/figlio e non è che abbiamo cercato di avere questo tipo di rapporto, è semplicemente accaduto.

Non riesco a descrivere come sia, ma in effetti è molto simile a un rapporto padre/figlio”.

D.K. Harrell: L’intervista

Sei dunque tornato a Greaseland per  il nuovo album.

Beh, per il primo disco l’obiettivo era di realizzare un album blues unico, se la cosa ha senso, anche perché avevamo Tony Coleman e Jerry Jemmott e Jim Pugh, pilastri non solo del blues tradizionale, I-IV-V, ma sono anche noti per aver creato funk blues e soul blues e persino R&B. Per il secondo disco sapevamo che, per certi versi, dovevamo andare in una direzione differente. Abbiamo avuto June Core alla batteria per i blues più tradizionali e D’Mar per i pezzi più funk, disco e R&B. E non è che June non sappia suonare quegli stili, June ha imparato da Willie Dixon…e dunque in brani come “Vibe With Me” o “What A Real Man’s Supposed To Do” puoi sentire una batteria in stile Chicago. June fa sembrare tutto facile, fa paura, suonare la batteria non lo è per niente. Per il basso ho voluto Andrew, della mia band, perché a Andrew piace imparare e sapevo che se si fosse trovato in quel contesto non avrebbe risentito di critiche, insulti o minacce. Abbiamo passato un po’ più di tempo in studio rispetto al primo album. Siamo andati in California in novembre e ci abbiamo messo quattro giorni invece di tre, il che va bene. Jim Pugh ha scritto una canzone per me, Kid Andersen ha scritto una canzone a partire dalle storie che gli ho raccontato su mio padre, col quale non ho un rapporto molto positivo.

La canzone è “No Thanks To You”.

Sì ed è stato molto difficile inciderla perché in studio ogni volta che la cantavo mi emozionavo, mi veniva da piangere e cercavo di trattenere le lacrime, take dopo take…e penso di essere arrivato al punto da dire a me stesso, “OK D.K., smetti di piangere, puoi farcela a cantarla”. Ma quelle lacrime venivano da anni di abusi verbali, di sentirmi dire cose orribili che nessun genitore dovrebbe dire al proprio figlio. Venivano dalla sofferenza. In un certo momento della mia vita ho cercato di stabilire un rapporto con mio padre me lui non lo voleva davvero. Sa essere una persona davvero acida, ruvida e crudele. Sono arrivato al punto, nel corso dell’ultimo anno, da non volerlo nella mia vita, perché mi sono successe talmente tante cose positive che non c’è posto per la negatività. Anche se viene dalla mia famiglia. Ed è duro. Sono grato a Kid per aver scritto la canzone. Ce ne stavamo seduti a mangiare pizza, uno dei suoi cibi preferiti, e all’improvviso mi ha chiesto di mio padre. E ho iniziato a raccontargli le mie storie. E alla fine dicevo, lo sai ora ho la mia casa, ma non certo grazie a te, ho avuto bellissime donne ma non certo grazie a te…E subito dopo lui ha scritto la canzone e penso sia splendida. Dopo averla incisa ci stavo pensando e un altro amico, conosci Art Tipaldi?

Sì, lo conosco.

Art mi ha chiamato e stavamo parlando di questa canzone, lui ha scritto le note di copertina, gli stavo dicendo che forse il pezzo non sarebbe andato bene, al che lui risponde, “no, questa canzone toccherà le persone che hanno relazioni complicate coi loro genitori o coi padri. Penso che nessuno abbia fatto un brano del genere. Alcuni hanno scritto delle loro difficoltà, cose come sono rimasto orfano o i miei sono morti quando era piccolo. Ma questa si pone dal lato della vittima.” Quando ero in crisi non c’era, quando avevo bisogno di lui non c’era, ci sono state molte volte quando avevo cinque o sei anni e volevo che venisse a prendermi per il fine settimana e lui non rispondeva al telefono. O diceva sarebbe venuto alle cinque e non si faceva vedere, mentre io restavo lì ad aspettarlo. Ancora oggi non riesce a capire come mi facesse sentire. Finora l’abbiamo suonata dal vivo solo una volta, ma voglio specificare che la canzone non viene dall’odio. Voglio bene a mio padre, non mi piace il suo carattere però.

D.K. Harrell foto Laura Carbone

D.K. Harrell (foto Laura Carbone)

E riguardo “Praise The Blues”? Gospel e blues non sono così lontani e tu suoni spesso in chiesa.

Sono cresciuto in chiesa! Quando ho avuto una neuropatia nel 2022, ho smesso di suonare in chiesa per un po’, ma continuavo ad andarci, ero solito suonare in chiesa. Una componente della chiesa, mentre ero lì e la messa era appena finita o stava per cominciare, non ricordo bene, mi ha detto, “sai D.K. tu hai talento, ma devi fare una scelta, puoi suonare per il Signore o per il diavolo, non per entrambi”. “OK”, ho detto. E lei ha aggiunto, “il motivo per cui hai questa neuropatia è perché suoni sia musica secolare che musica gospel”. E sei mesi o forse un anno dopo avermi detto queste cose è morta. E la cosa mi ha un po’ spaventato perché è stata l’ultima interazione che ho avuto con quella persona, la conoscevo da oltre dieci anni, è stato strano.  E un’altra cosa che ha ispirato la canzone è una volta che abbiamo suonato a West Memphis, Arkansas, che è a forse 15 minuti da Memphis. C’era un pubblico in maggioranza afroamericano e la prima band era una cantante che fa molto R&B anni Settanta/Ottanta, cose come “Working At The Car Wash”…che mi piacciono e con cui non ho nessun problema, e il pubblico afroamericano l’apprezzava molto. Invece, non appena siamo saliti sul palco noi, ci hanno guardato nemmeno fossimo il Klan…non so, è perché siamo un tipo diverso di blues band, ma allo stesso tempo, ed è un fatto nella comunità afroamericana, molti considerano blues una musica che per me southern soul, che per me non lo è davvero. Non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma per me è come una versione più economica del R&B. Col blues devi avere veri strumenti, chitarre, fiati…non sintetizzatori. Cerco sempre di spiegare alla mia gente, gli afroamericani, che questo è il vero blues ed ha influenzato il southern soul.

Dopo, eravamo da McDonald’s, l’unico posto aperto dopo il concerto e stavo dicendo alla band queste stesse cose. Dicevo, “sapete una cosa divertente su noi afroamericani? Siamo gli unici che si lamentano e dicono che non c’è nuova musica, quando ci sono nuovi artisti e nuova musica in ogni genere.” Ma siamo così abituati ad ascoltare sempre le stesse cose. E pensate a quando andiamo in chiesa la domenica, il coro può cantare le stesse quattro canzoni e la gente è felice lo stesso e lodano il Signore. E questo ha ispirato “Praise These Blues”. Canto, “you can go to church on Sunday and clap your hands to the same old songs”. L’ho detto a Kid e agli altri…cerco solo di indurre la gente ad essere più aperta riguardo quello che ascolta. Per me, dato che B.B. King è il mio idolo le gente pensa io non ascolti altro, ma non è così, ascolto Duke Ellington, Nat King Cole, Mozart e Bach…nel mio telefono ho moltissima musica diversa di ogni genere, dalla classica al jazz, al pop anni Sessanta, ho persino musica brasiliana. E se chiedi a qualunque musicista che suoni black gospel e blues ti direbbe che l’unica differenza tra i due è di uno o due accordi. Due giorni fa suonavo in chiesa un gospel tradizionale ed aveva un classico blues turnaround.

Da dove viene “Talkin’ Heavy”, una sorta di topical song.

Oh, questa è divertente. C’è un film degli anni Ottanta, “Ritorno Al Futuro” e lo stavo guardando o lo avevo guardato e mi dicevo qual è la parola che nessuno usa quasi più ma che evoca qualcosa se viene usata? Heavy. Ed è quello che dice di continuo Marty McFly, “That’s heavy, Doc!” ogni volta che c’è qualche notizia brutta o sconvolgente. Mi sono detto, posso scrivere una canzone su questo. Ho citato in un certo senso i problemi del mondo e quelli della vita quotidiana. Quando si è trattato di trovare un titolo per l’album non è stato facile, non eravamo sicuri di usare il titolo di un brano. E così abbiamo trovato una trentina di titoli diversi. E ogni volta Bruce Iglauer diceva, “oh, non so…quest’altro non mi piace…”. Kid ha proposto Heavy o Talkin’ Heavy e all’inizio quando lo abbiamo menzionato all’etichetta hanno detto, “oh no, non va bene”. Poi ci hanno ripensato, “ah lo vorresti intitolare Talkin’ Heavy”. E Kid, “è quello che dicevo”. A volte succede, torniamo sulle cose per capire se ci piacciono o meno.

Hai anche cambiato varie chitarre per le registrazioni?

Sì, ne ho usate diverse, che tu ci creda o meno, ho suonato una Fender Stratocaster, una Telecaster, una Gibson Barney Kessel, dal suono molto jazz e pieno…ed anche una Gibson 175 o 125, simile a quella che suonava Charlie Christian. L’ho usata su “Get These Blues”, perché il brano doveva avere quel suono di chitarra hollow body che si usava nelle chiese negli anni Venti e Trenta. E su “Talkin’ Heavy” ho persino usato un pedale phaser Mxr 90…e li detestavo. Quando la gente mi diceva, “oh non usi pedali o effetti”, rispondevo sempre, “altra roba da trasportare”, dipende dal concerto, ma non voglio portarmi dietro tutta quella roba. Ma per il disco, la ragione per cui ho provato cose diverse è che io e Kid ci siamo detti che per una canzone ci voleva quel tono e quella chitarra e mentre un’altra richiedeva un suono diverso…ci abbiamo riflettuto di più stavolta. Una volta in studio io e Michael stavamo ascoltando le incisioni che Kid stava passando sugli altoparlanti e durante un assolo Michael mi fa, “ragazzi, ma è Kid che suona qui?” “No, sono io”. “Davvero? Non ti ho mai sentito suonare così”. Per qualche ragione, a seconda del tipo di chitarra che ho tra le mani, suono in modo diverso. È strano ma l’ho notato. Penso si per via del tono, da come suona la chitarra che fa in modo che io la suoni diversamente. Anche la band lo sa, mi hanno visto suonare chitarre di altri. E la gente è abituata ad un approccio più B.B. King o Albert King e quando mi sente suonare in altri modi pensa, “e questo cos’è?”.

 Ci sono un paio di canzoni come “Grown Now” e “Life’s Lesson”, dove racconti cosa è successo nella tua vita negli ultimi anni, non solo per quanto riguarda il lato musicale.

Michael mi ha detto, dopo che abbiamo inciso il primo disco, “dovresti incidere una canzone che parli di quello che hai passato, quando eri homeless”. E gli ho detto, “Mike, non voglio scrivere una canzone triste, la gente lo fa di continuo”. “Non deve essere per forza triste, vorrei solo ne parlassi”. “OK”. Così, eravamo in Germania, no eravamo qui a casa in Louisiana, ho scritto il testo di “Grown Now”…e alcuni nella band volevano avesse un suono quasi da canzone pop anni Ottanta e non mi piaceva. Non fraintendermi, mi piacciono alcune cose degli anni Ottanta, ma il mio blues non può suonare come Prince e avere una canzone blues che suona come Michael Jackson mi sembrerebbe strano. Così io e Kid ci abbiamo pensato un attimo e in Settembre o Ottobre scorso l’abbiamo cambiata un po’. Kid mi fa, “e se facessimo una cosa alla Little Milton tipo That’ What Love Will Make You Do?” “Mi piace, proviamo”, gli ho detto io. “Grown Now” è una canzone in cui puoi essere orgoglioso della merda che hai dovuto passare…di solito canzoni che parlano di un cambiamento di vita dal negativo al positivo sono pezzi lenti, ma sapevo che doveva colpire le persone. Per “Life’s Lesson” avevo in mente di fare un brano che fosse un blues di 8 battute. Mesi fa ho scritto dei testi per “Life’s Lesson” e le ho mandate a Kid, lui è un grande autore di canzoni, riesce a tirare fuori le cose che ho in testa. C’erano due o tre persone che mi hanno detto, “ma nessuno usa la parola trasgressione”, “ma è proprio questo il punto”, ho risposto io. Devi usare parole che abbiano senso e se non sono comuni, possono sempre andare a vedere il significato.

D.K. Harrell Foto di Laura Carbone

D.K. Harrell (foto Laura Carbone)

Su “No Thanks To You” ci sono anche degli archi.

Sì, ma ti dirò che qualcuno non ne era contento, dicevano fosse troppo simile a “The Thrill Is Gone”. A me però piacciono le buone sezioni di archi. E nel blues non le usa più nessuno. E non sto cercando il crossover, non siamo più negli anni Sessanta. Quando Kid mi ha chiesto cosa ne pensassi degli archi gli ho detto, “ma certo, proviamo”. È stata una sua idea. Quando mi ha mandato i primi mix delle registrazioni ho pianto. Perché il violoncello basso in una parte della canzone suonava così bene e stabilisce davvero il tono della canzone, puoi quasi ascoltare il percorso tra tristezza, accettazione e superamento, come un film. Se pensi poi a “Into The Room”, dove c’è anche un flauto, tutta la band era contenta proprio perché diversa. Ci siamo divertiti con questo disco, doveva essere speciale. Ed è stata un’idea mia di Jim Pugh e di Kid. Eravamo in Svizzera nel marzo dello scorso anno ed ho scritto una canzone terribile, “One Day Flu”, parlava di un uomo al quale la sua ragazza lo chiama e gli dice di essere “malata”, in realtà vuol dire che si darà malata al lavoro per tornare a casa a far l’amore con lui. La musica era simile a “Soul Of A Man” di Bobby Blue Bland. Ho mandato a Kid la versione del pezzo di Bland che avevo in mente e quando sono arrivato in studio Jim mi fa, “sai, c’è una canzone di Jackie DeShannon chiamata Every Time You Walk Into A Room che starebbe bene con l’idea del pezzo alla Bobby Bland”. “Non ho mai sentito quella canzone”, gli ho detto. Così me l’hanno fatta sentire su Youtube ed era la cosa più anni Sessanta che avessi mai sentito. In questo modo è stato come incrociare Jackie DeShannon e Bobby Bland! Un sound quasi disco. Ho visto un video di Bobby Bland al Chicago Blues Festival del 1981 e uno dei suoi chitarristi era Mel Brown, che suonava una Barney Kessel. E allora ho fatto del mio meglio come se Mel Brown stesse suonando questo brano, non riesco a fare i suoi accordi ma almeno ho cercato di avere lo stesso tono.

“PTLD” parla, in un certo senso, dei postumi di una storia d’amore.

Questa è stata scritta in Belgio, stavamo per suonare al Hook Rock Festival, ero nella mia camera in hotel, ripensando ad una relazione passata con Sallie, era un’alcolista e ogni giorno c’era una discussione per le ragioni più stupide. Una volta stavo preparando la cena, lei aveva un gatto e dato che il gatto si era stufato di mangiare i croccantini e io stato preparando il pollo, ogni tanto gliene davo un pezzetto. E lei, “D.K. stai uccidendo il mio gatto!”, “ma guarda che i gatti possono mangiare il pollo!”. Cose così. E mi sono detto, e se racconto di qualcuno che fatica a trovare l’amore o a riprendersi da una relazione perché nonostante abbia fatto di tutto ha avuto solo PTSD (sindrome da stress post-traumatico) da essa. Ma il testo della mia prima versione era diverso, perché mi hanno consigliato di scrivere una canzone che non fosse su me stesso. E Kid mi ha raccontato questa storia di un suo amico che ha passato la stessa cosa ed è diventato un alcolista perché ha perso la sua donna. “Possiamo fare una canzone su questo”, gli ho detto. E quindi parla di una persona che fa la cosa giusta ma il trauma lo sposta in un’altra direzione.

Come sei approdato all’Alligator?

Con Bruce ci siamo conosciuti due anni fa ed ha mostrato un certo interesse per me allora. Eravamo in Wisconsin, mi ricordo. Purtroppo, all’epoca sua moglie si era ammalata, cosa di cui ero molto preoccupato. Nel 2024 io e Michael lo abbiamo incontrato di nuovo, aveva espresso interesse, ne abbiamo parlato e non ci sono stati problemi, io sono aperto e mi piace far funzionare le cose. Certo, una volta registrato il disco, lo abbiamo mandato a Bruce e lui ci ha chiesto di alcune cose. Una canzone per lui era troppo pulita, ma io e Kid ne abbiamo parlato con lui, abbiamo fatto piccole modifiche ed è contento del disco. Ci siamo visti due settimane fa e mi ha detto, “sai, tutti nella label amano il tuo disco”. E i suoi collaboratori me lo hanno espresso. Abbiamo avuto controllo creativo ma eravamo anche aperti agli input di altri, dal punto di vista creativo, più o meno lo stesso processo con la Little Village. Penso che ci sia qualcosa per tutti sul disco.

 Suonerai tra poco (intervista realizzata fine maggio ndt) a Chicago Blues Festival per il centenario di B.B.King.

Sono molto felice mi abbiano chiesto di farne parte. Sono passati dodici anni da quando l’ho visto di persona, ho amato la sua musica per tutta la vita e ho lavorato col B.B. King Museum dal 2019, ho fatto il primo concerto grazie a loro. Per gli artisti non è facile suonare al Chicago Blues Festival, hanno una procedura molto rigorosa di selezione. Perciò il comitato lo ha approvato ed essere lì con alcuni amici come Jonathan Ellison o Christone…poi la maggior parte della band la conosco già, ho suonato con loro. Non vedo l’ora e spero di non sbagliare per troppa eccitazione, ma so che ci divertiremo. E ci sono altri progetti su B.B.  di cui sono parte, saranno pubblicati più avanti nel corso dell’anno, ma non posso ancora dire nulla a riguardo.

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