Per le edizioni Shake è uscita, lo scorso novembre, una monografia dedicata ad uno dei più stimati artisti di rock’n’roll dell’ultimo mezzo secolo, Tom Petty dal titolo “Tom Petty. Da Elvis a Dylan e Johnny Cash, un’altra idea di America. L’innocenza del rock’n’roll”. L’hanno firmata Marco Denti e Mauro Zambellini, che nel corso delle pagine conducono il lettore a zonzo negli spazi aperti di “un’altra idea di America”, come recita il sottotitolo.  Vi proponiamo di seguito, grazie alla gentilezza di editore e autori, un estratto che ben delinea il rapporto tra Petty e i suoi straordinari Hearbreakers con la musica di cui ci siamo sempre occupati su queste pagine. In particolare il passaggio riguardante un pilastro come Bo Diddley contenute nel capitolo 32, “Rockin’ Around (With You)”:

[…]Premesso che blues e rhythm and blues sono il Big Bang di tutto, Tom Petty li filtra in un’evoluzione durata decenni e cominciata dalla stringente essenzialità del garage, che resta la linea di partenza. La musica soul, la Stax, la Motown, sono richiami costanti che appartengono a Tom Petty e agli Heartbreakers fin dall’inizio anche se per esprimerli compiutamente ci hanno messo del tempo. Il trait d’union della semplicità tra il sound garage e la musica afroamericana va cercato forse in Bo Diddley, una grande influenza, un’intera cultura ritmica.

Ci deve essere un segreto, un incantesimo, un mistero nello stile di Bo Diddley. Qualcosa che esula dall’aspetto pratico e tecnico della musica, o meglio lo supera e va dritto a colpire nell’essenza, nell’anima, nel nucleo vitale, il ritmo. Riducendolo ai minimi termini, spogliandolo di ogni decorazione, più o meno inutile, trasformandolo in una sorta di sequenza ipnotica e contagiosa. Uno speciale battito cardiaco, rivisto e corrotto, a cui nessuno è rimasto estraneo in tutta la storia del rock’n’roll: da Buddy Holly ai Rolling Stones, dai Who ai Velvet Underground, da Bruce Springsteen agli U2 prima o poi chiunque è rimasto invischiato nel torbido minimalismo del suo jungle rhythm, quell’accento spostato di un paio di battute (tutto lì) che ha reso indimenticabili Not Fade Away e Magic Bus, Mona e She’s The One e Diddy Wah Diddy e Desire. Il provvisorio elenco (in realtà sarebbe infinito) è random e non a caso: la differenza tra le interpretazioni e gli originali del songbook di Bo Diddley, fatte salve le variopinte personalità di musicisti e cantanti coinvolti, sono esiziali, per non dire nulle perché così, in effetti, sono le canzoni. Uno, due accordi e quando c’è il terzo è perché è un blues, niente di più, niente di meno. Un’energia incredibile.

Inutile chiedere a Ellas McDaniel alias Bo Diddley un suggerimento per risolvere l’enigma alla fonte del suo particolarissimo DNA ritmico. Ancora nel 1990, all’epoca dei primissimi cofanetti, introducendo quello a lui dedicato dalla Chess (imperdibile) diceva: “C’è sempre qualcuno che viene a scocciarmi per dare un nome a quello che sto facendo e un sacco di volte devo ripetere che non so cosa sia. È qualcosa che dipende dallo spirito, da qualche ritmo sacro e dal feeling”. Poche parole, come è giusto nel “gunslinger style” che però contengono alcune indicazioni precise. Essendo nato a McComb, Mississippi il 28 dicembre 1928, Bo Diddley è cresciuto a Chicago, scoprendo il suo primo disco alla tenera età di undici anni.

Era Boogie Chillen di John Lee Hooker e Mama Gussie McDaniel, la cugina della madre che lo stava accudendo, lo spedì in camera, in castigo. Come raccontava lo stesso Bo Diddley, non era quella la musica che ascoltava la gente che andava in chiesa. Eppure fin dai primi, scarnissimi dischi, dalle sue strambe Gretsch e dalle maracas di Jerome Green, fedele percussionista, usciva un sound mistico e spettrale nello stesso tempo, e spiritato se non proprio spirituale. In seguito, non è cambiato molto, anche quando alla scheletrica struttura del suo sound, ha aggiunto una batteria vera e propria, una seconda chitarra, a volte un sassofono o qualche altro contrappunto. Robert Palmer, grande ricercatore e altrettanto abile narratore, è quello che, più di tanti, ha provato a rintracciare nei riff di Bo Diddley le fonti primarie e poi le estensioni di quella che chiamava “un radicale approccio all’organizzazione ritmica”. La definizione suona più come uno slogan politico che come un’ipotesi culturale, ma ha una logica lineare: Bo Diddley è l’anello di congiunzione tra Duke Ellington, Cab Calloway (in particolare) e James Brown e da lì in avanti fino all’hip-hop. L’idea di riappropriarsi del ritmo nella musica afroamericana è legata in modo indissolubile all’epoca in cui il drumming dei tamburi era proibito perché era una forma di comunicazione sconosciuta, provocante, liberatoria, pericolosa. Ecco, quello che ha fatto Chuck Berry con il songwriting, Bo Diddley l’ha fatto con il ritmo: l’ha riportato “back to the roots”, l’ha riportato a casa e “back home” vuole dire Africa. […]

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