L’edizione di quest’anno presentava un cartellone privo, almeno in linea teorica, di grandi vedette, eppure il livello dei concerti è stato in media piuttosto buono. La sera di giovedi 12 novembre il festival apre ufficialmente con Lil’ Jimmy Reed, all’anagrafe Leon Atkins, ultrasettantenne residente in Alabama, è musicista che richiama appunto l’illustre modello giovanile. Chitarra e armonica, suonate in modo semplice ma efficace, Reed era accompagnato dal suo produttore e amico inglese Bob Hall al piano e dalla sua partner Hilary Blythe al basso. A sorpresa si è unito ai tre Lil’ Ed Williams nelle inconsuete vesti di batterista (i tre si erano conosciuti proprio a Lucerna). Se il repertorio era di cover, da “Honest I Do” in giù, però interpretate con grande simpatia da Reed, è stato un piacere ascoltare il lavoro ai tasti di Hall, musicista di lungo corso, la cui carriera, con qualche interruzione, risale agli albori del British Blues.

Foto di Philippe Pretet

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I Low Society invece, una band di Memphis guidata dalla cantante Mandy Lemons e dal chitarrista Sturgis Nikides, danno vita ad un set di rock / blues molto tirato, sulla scia del loro ultimo disco per la Icehouse, “You Can’t Keep A Good Woman Down”. Da esso hanno estratto cose come “Crammed & Jammed” o “Voodoo Woman”, senza però convincere, forse per la voce sempre forzata della Lemons o per gli squilibri della band o gli assolo parossistici copia e incolla del chitarrista.

Tutto torna a posto appena Lil’ Ed & Blues Imperials salgono sul palco. Ed, sessantenne cui l’età non ha tolto verve, aveva un trio di bianchi (assente James “Pookie” Young al basso) molto funzionale e composto, economo il secondo chitarrista Thomas J. Holland e molto buona la sezione ritmica. Il resto lo fa una musica divertente e sovente scanzonata, come nel loro piccolo classico “Chiken Gravy & Biscuits” o “Icicles In My Meatloaf”. Ma anche alcuni lenti non certo di maniera, tra cui “Life Is A Journey” dal disco in studio più recente, e  bei boogie ne mettono in evidenza lo stile alla slide, richiamando lo zio J.B. Hutto. Una piccola flessione a circa tre quarti del concerto, di quasi due ore, non scalfisce una prestazione maiuscola.

Foto di Philippe Pretet

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La chiusura della serata spetta a Vaneese Thomas, e non è un compito facile dopo oltre tre ore e mezza di musica, però lei e la band svolgono al meglio il compito. Gran voce e band dalle buone dinamiche, Vaneese attinge sia dal recente e ottimo “Blues For My Fathers”, per “10 Times The Man You Are” o “Old Man Down The Road” (quest’ultima firmata John Fogerty). Integra con omaggi al padre Rufus, “Walking The Dog”, a Etta James “I’d Rather Go Blind”, Al Green “Take Me To The River”, e Koko Taylor “Wang Dang Doodle”.

La sera seguente, ecco Shawn Holt, altro figlio d’arte, ha fisicamente la stazza del padre, Magic Slim, mentre alla chitarra ha buoni spunti ma anche qualche eccesso da limare (anche da parte del secondo chitarrista Levi William Patton). La sezione ritmica però è formidabile, formata da due stagionati e impeccabili professionisti, Allen Kirk alla batteria e Russell Jackson al basso. La loro chimica provvede a saldare il suono della band, arginando le fughe in avanti dei chitarristi. Hanno proposto pezzi dal loro CD su Blind Pig, “Daddy Told Me”, quali “Get Your Business Straight” più qualche classico, come “Talk To Me Baby” e “Wang Dang Doodle”. Ritroviamo Lil’ Jimmy Reed e soci, stavolta senza Lil’ Ed alla batteria, per una seconda razione di blues spontaneo e senza fronzoli.

Foto di Philippe Pretet

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Molto buono il concerto di Wee Willie Walker & We R di ritorno al festival svizzero, dopo un bel concerto coi Butanes nel 2007. Voce intatta e soul a  profusione, come uscito dai solchi di uno dei suoi, pochi, singoli Goldwax. La fa da padrone soprattutto il suo recente “If Nothing Ever Changes” un gran disco prodotto da Rick Estrin e Kid Anders, con l’aiuto di Jim Pugh (tastierista di Robert Cray per venticinque anni). Splendida la rilettura di “Everybody Meets Mr. Blue” di Eddie Hinton e poi una versione della beatlesiana “Help” completamente trasfigurata e diventata una grande ballata deep soul. E’ ancora tempo di un lento, l’autografa “Not That I Care” oppure di un pezzo più vivace, “I Don’t Remember Lovin’ You”. Bella anche la cover di “A Change Is Gonna Come” nel finale. Walker merita senza dubbio maggior fama e chissà che il CD di cui sopra, non sia finalmente l’occasione giusta per lui.

Torniamo a Chicago con Toronzo Cannon ed il suo combo di blues muscolare e potente, ma attento anche alla costruzione di brani proprio come “Mid Life Crises”, un’anticipazione del nuovo album in uscita ad inizio 2016 su Alligator. Per il resto attinge a classici (“Can’t Hold Out”), ma anche al contenuto dei suoi due CD per la Delmark, con pezzi come “If You’re Woman Enough To Leave Me” e “John The Conquer Root”. Toronzo ha buone potenzialità, è un cantante non eccelso ma efficace, sa dosare la voce ed è un chitarrista ruvido e diretto, senza troppi voli pindarici. Nella sua band spicca il contributo del tastierista Brother John Kattke, visto spesso con Dave Specter. Toronzo ha una certa capacità di tenere il palco, ha i piedi per terra, come abbiamo constatato durante l’intervista e la firma per la casa di Bruce Iglauer lo potrà far conoscere ancora di più.

Foto di Philippe Pretet

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Siamo a sabato 14 e a un inizio un po’ in sordina col set di Murali Coryell (figlio di Larry), un pot-pourri di cover di soul e blues, senza una direzione precisa, ricordiamo almeno l’omaggio a B.B. King con “Sweet Little Angel”. Ma purtroppo il suo concerto, stante le innegabili capacità di chitarrista, passa e non lascia tracce.

Chi invece ha dato prova ancora una volta, di come i dischi non gli rendano giustizia, è stato Billy Branch coi suoi rinnovati Sons of Blues. Imperniati sull’armonica di Billy e sul piano di Ariyo, pregevole e di gran gusto, la band ha dinamiche e bel respiro, la sezione ritmica funziona e anche il chitarrista Dan Carelli suona con la giusta attitudine. I brani dell’ultimo CD “Blues Shock” sono molto più fluidi e convincenti, da “Crazy Mixed Up World” ad esempio. Poi ci sono i classici che fanno parte della sua storia, ed inoltre l’armonica di Billy ha una personalità che ormai pochi altri colleghi possiedono.

Cambio d’atmosfera con Marcia Ball e la sua band, per la quale vale quanto detto per Branch, in quanto le sue performance sono piene di vitalità e comunicativa, con un repertorio originale interpretato con classe e brio. Il suo quartetto, apparentemente compassato, fa molto bene il proprio compito, Damien Llanes e Don Bennett Jr. formano una ritmica ben oliata, Michael Schermer è un chitarrista di spessore ed il sax di Eric Bernhardt si ritaglia un suo spazio con discrezione. Molto bella la sua rilettura del classico di Randy Newman “Louisana 1927”, ballata dolente che dopo Katrina ha assunto nuova connotazione. Diversi i pezzi dell’ultimo CD, come “Squeeze Is On” e “The Tattoo Lady & The Alligator Man” o ancora vecchi suoi cavalli di battaglia come “La Ti Da”,   “Let Me Play With Your Poodle” e “Human Kindness”. Un bel concerto.

Foto di Philippe Pretet

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Come di consueto al Casino il festival termina con lo zydeco e il gruppo di Major Handy con alla chitarra Paul “Lil Buck” Sinegal, ha dato vita ad uno dei concerti più divertenti e piacevoli di quest’anno. Buono l’amalgama sonoro, con Sinegal apparentemente distaccato ma sempre sul pezzo e interessante il repertorio, che spazia da un omaggio a Clifton Chenier, “I’m A Hog For You Baby” a “Dance Koden”, “Come On Home” e “Zydeco Feeling”, tutti tratti dal suo bel disco di qualche anno fa edito dalla APO. La sala si svuota un po’, del resto sono le ore piccole, ma Handy e i suoi continuano fino quasi alle 2 senza dare segni di stanchezza, stimolati dalla batteria di Keith Sonnier e dala gioventù di Keisher Alexander.

Matteo Bossi – Marino Grandi

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