Muddy Waters 100 cover album

Muddy Waters: modi diversi per non dimenticare l’uomo e la sua musica

Avevamo già iniziato, pur senza immaginarne il seguito, ad occuparci di lui. Cominciammo nel numero 128 (Settembre 2014) con un viaggio a ritroso nel tempo negli anni compresi tra il 1947 ed il 1962. Poi fu la volta di Marco Denti che nel giugno di quest’anno, con la consueta perizia che lo contraddistingue, ci prese per mano per farci toccare, o perlomeno intuire, la sua importanza di traghettatore verso le nuove generazioni. A questo punto, approfittando della pubblicazione, non certo contemporanea ma quasi, di tre diverse testimonianze discografiche, racchiuse in due doppi CD ed un singolo, in cui Muddy Waters è più o meno presente, scagliamo un’altra pietra nello stagno del conformismo fatta questa volta di angoli vecchi già esplorati, di nuove angolazioni, di omaggi postumi. Vorremmo chiudere questa prefazione confermandovi anticipatamente che a noi importa poco o nulla di sapere quando lui è nato (1913 o 1915). L’importante è che lo sia.

Muddy Waters live nel 1970

La Fondazione del Chicago Blues

Stando a quello che il curatore delle note di questo doppio CD, “Early Morning Blues The 1947-1955 Aristocrat & Chess Sides” (Soul Jam 600849), Gary Blailock, ha riportato nel bel libretto corredato anche di foto in bianco e nero e a colori, viene da pensare che anche noi siamo…in ritardo di due anni nel ricordare i 100 anni dalla nascita di McKinley Morganfield (Muddy Waters). Il suddetto Blailock ha citato come data di nascita, il 4 aprile del 1913 nella Issaquena County Mississippi. Da dove salta fuori questa novità? Non dai vari “documenti” cartacei e discografici anche in nostro possesso che riportano, sempre, 4 aprile 1915 Rolling Fork, Sharkey County, ma da…internet! Già, proprio così. Abbiamo verificato! Sappiamo che per buona parte dei bluesmen la data di nascita è incerta, ma per Muddy sembrava non ci fossero dubbi, tutti d’accordo sull’anno di nascita, mentre com’è ovvio la data di morte è certa, 30 aprile 1983. Dove sta dunque la verità? E chi, carte alla mano, può chiarire l’enigma? Da parte nostra continuiamo a prendere in considerazione quel “certificato di nascita” che riporta l’anno 1915, anche perché la ragione per la quale siamo tornati su sua Maestà Muddy Waters è per celebrare il centenario della sua nascita, ma non con l’ennesima biografia, bensì attraverso recenti pubblicazioni in CD che lo riguardano in maniera diversa.

In ordine cronologico iniziamo da questo doppio che fa parte del catalogo della scatenata etichetta inglese Soul Jam, che ha recuperato e rimasterizzato le prime registrazioni riguardante entrambi i lati dei singoli che ha inciso a Chicago, dapprima con la Aristocrat, etichetta fondata da Charles Aron (di origine romena) e da sua moglie Evelyn, passata poi totalmente nelle mani di Leonard Chess che nel 1950, unitamente al fratello Phil, ne cambiò il nome in Chess Records, avviando quel seminale processo di affermazione e diffusione prima solo per il blues urbano e, successivamente, per il rock’n’roll e il r&b. A seguito del “trasloco” da una etichetta all’altra, c’era anche Muddy Waters, che ha sempre dichiarato che il contratto con i fratelli Chess non fu mai messo su carta, perché è bastata una stretta di mano fra uomini seri e, aggiungiamo noi, quella stretta deve essere stata forte per il lunghissimo sodalizio. Muddy verso la fine degli anni quaranta era già  uno dei bluesmen di primo piano a Chicago, ed aveva intuito che le sonorità agresti del Sud, dovevano subire una “scossa elettrica”, sempre a colpi di slide, per rappresentare il nuovo assetto sociale urbanizzato del popolo afroamericano, non sapendo ancora che sarebbe diventato anche uno dei più influenti “papà”, oltre che del blues, anche del rock, e il più amato e rispettato “capo banda” dai tanti bluesmen (e non solo) che sono passati nella sua blues band, per quel magnetismo che comunicava, per un carattere mite ma deciso, per la perspicacia e l’altruismo. Per il materiale di Muddy Waters, le stamperie di dischi, in vinile e/o CD, non hanno mai attivato la “cassa integrazione” per il lavoro continuo di ripubblicazioni, compreso questo doppio dove emerge che alcuni pezzi blues che hanno fatto la storia della musica, erano usciti a suo tempo sui lati B dei 45 giri. Le registrazioni sono messe in ordine cronologico e le prime tracce con il marchio Aristocrat, lo vedono già autorevole al canto come alla chitarra, accompagnato da Sunnyland Slim al piano e Ernest “Big” Crawford al contrabbasso che garantiscono i primi semi di un suono urbano, “Gipsy Woman”, “Little Anna Mae”, suono che viene rafforzato da uno slide più vivo ed espressivo in “I Can’t Be Satisfied” e “I Feel Like Going Home”. Questi ultimi due, eccellenti! Al suddetto trio si aggiunge in seguito Leroy Foster che va a dare più consistenza alla parte ritmica, “You’re Gonna Miss Me”, “Streamline Woman”, lo strumentale “Muddy Jumps One”. Si torna al trio con “Little Geneva” e “Canard Bird”, e da qui Muddy fa scorrere lo slide sul manico della sua chitarra con maggior straordinaria enfasi e controllata forza. All’alba degli anni cinquanta esce l’ultimo singolo col marchio Aristocrat, si tratta di “Rollin’ And Tumblin’ –Part.1 e 2”, con la versione sul secondo lato più marcata e tendente ad un blues sempre più elettrificato, come è dimostrato anche in “Rollin’ Stone” e “Walkin’ Blues”, prime tracce con il marchio Chess. E’ la definitiva consacrazione di Muddy Waters e di una nuova musica, il Chicago Blues, sinonimo di penetranti slow e agevoli shuffle, ora caratterizzati anche con il supporto dell’armonica di Little Walter, presente dalle registrazioni di “You’re Gonna Need My Help”, “Sad Letter Blues”, “Long Distance Call”, “Honey Bee”, “Still A Fool” ecc, altre indelebili storiche impronte del vocabolario musicale. Muddy inizia a circondarsi di straordinari musicisti in grado di assecondare il procedere in elettrico, valorizzando il suo slide tagliente e il suo vocione espressivo, e le registrazioni presenti nel secondo CD vedono un alternarsi all’armonica fra Little Walter, Junior Wells e Walter Horton, arriva Jimmy Rogers, ottimo nel suo incedere ritmico, ecco anche Willie Dixon e i batteristi, Elgin Evans, Fred Below e Francis Clay e soprattutto il grandissimo pianista Otis Spann, che disegna linee melodiche e ritmiche dalla forte intensità e delicatezza. Muddy Waters dunque continua ad avere fra le mani la migliore blues band in circolazione e la sua popolarità si espande anche fuori i confini di Chicago, trascinata da altri blues che diventeranno le pareti del rock con la complicità anche del prolifico Willie Dixon: “She Moves Me”, “Standing Around Crying”, “She’s All Right”, “Blow Wind Blow”, “I’m Your Hoochie Coochie Man”, “I Just Want To Make Love To You”, “I’m Ready”, “Mannish Boy”, “Trouble No More”. Da qui, si domina la valle…della musica!

Silvano Brambilla                


Il carisma di Muddy Waters

Quella che segue è una storia in cui convivono realtà e idee personali, entrambe condite con quel pizzico di fantasia necessario a farne più di una recensione e meno di un articolo. Ma anch’essa, come tutte le storie che si rispettano, ha un inizio che, ovviamente, precede il doppio CD che abbiamo tra le mani e che, in fondo, è stato proprio  il suo ascolto che ha generato il tutto.

Siamo nella metà degli anni Settanta e Muddy Waters, pur alle prese con una vita tutto sommato agiata, era reduce dai problemi derivanti più che dalla chiusura definitiva della Chess Records dalla mancanza di attenzione di quest’ultima nei suoi riguardi. A questo punto subentrò la figura di Johnny Winter, da sempre grande ammiratore di Muddy e che aveva sempre sognato di suonare con lui, che, grazie all’interessamento mostrato da Scott Cameron (manager di Waters), lo rintracciò e sfruttando i suoi buoni rapporti creati con la quasi neonata Blue Sky, lo convinse ad entrare di incisione (i casi della vita: questo è per Muddy un “ricominciare da capo”, in quanto la Epic appartiene al gruppo Columbia, e cioè lo stesso con cui nel 1946 Muddy realizzò la sua seconda seduta di registrazione). Circondatosi di Bob Margolin alla chitarra, dei fidi Pinetop Perkins al piano e Willie “Big Eyes” Smith alla batteria, affidatosi a James Cotton (che portò con sé il bassista Charles Calmese) per quanto riguarda l’armonica, ed affidata la chitarra allo stesso Winter, Muddy nell’ottobre del 1976 entrò in studio e nel giro di due giorni diede vita a “Hard Again” che venne pubblicato il 10 gennaio 1977. E’ chiaro che il ritorno di Waters con un ellepì dal titolo  chiaramente allusivo meritava un tour promozionale. E se così prese forma il “The Hard Again Tour”, vuol dire che è arrivato il nostro momento per parlare finalmente di musica, in quanto le tracce incluse in “Boston Music Hall 1977” (Echoes 2011) sono proprio figlie (il)legittime di quel tour. Non sappiamo però a questo punto se quella sera Muddy Waters fosse sempre presente fisicamente sul palco, perché non abbiamo mai sentito Winter e Cotton essere così convincenti nelle trame, sempre e solo squisitamente blues, che qui sciorinano con estrema disinvoltura e libertà interpretativa. Ci auguriamo solo che ciò sia accaduto, alla faccia della presunta, e spesso provata, assoluta integrità allo stilema watersiano a cui i membri della sua band dovevano attenersi. Infatti una certa ortodossia esecutiva la si può trovare, però unicamente nei brani in cui Muddy è il leader vocale, senza per questo togliergli il doveroso riconoscimento della rilettura di classe di “Deep Down In Florida” o le altrettanto magnetiche versioni di “Mannish Boy” e “Got My Mojo Working”. Comunque si siano svolti i fatti, e al diavolo (se non a chi?) quei qualcuno che ci accuseranno di aver inserito in questo spazio dedicato a Waters un’operazione discografica in cui lui è solo uno dei partecipanti e non il protagonista assoluto. Beh, possiamo replicare a costoro dicendo che è stata sufficiente la sua presenza (magari solo in spirito o dietro le quinte) a cavare dalle anime di Winter e Cotton quelle sonorità blues così sporche e tinte di nero in grado di saturare l’aria e mutare l’atmosfera del concerto e la sua locazione da quella in un teatro a quella in un juke joint. E tutto ciò non possiamo che attribuirlo al carisma di Muddy Waters, la cui presenza o meno sul palco non ha mutato verso il solito rock-blues di facile presa le sonorità del concerto (cosa che accade nella quasi totalità dei casi in cui è la band priva del leader a condurre le danze), indice questo che il mojo di Muddy era già dentro di loro e non aveva ridotto la loro libertà espressiva personale, ma l’aveva solo usata per cavarci soprattutto quell’anima blues magari non canonica che sembrava ormai sopita in entrambi i partner. Insomma, il “loro” blues, era vivo e vegeto. Bastava stimolarlo.

Eccoci allora alle prese con la versione di “Hideway” dove, se le due chitarre  si scambiano i ruoli, c’è spazio per il piano di Pinetop e per un duetto tra Cotton e Calmese (ammettetelo abbastanza inusuale in un brano del genere) che sembrano impegnati a cercare nuove note che ne rimarchino la differenza con l’originale. Ma la stima per Freddie King non si conclude qui, anzi, il suo slow “You’ve Got To Love Her With A Feeling” viene aperto dalla chitarra di Winter che prende il largo prima che l’armonica di Cotton ne spezzi il monopolio per ingaggiare con lei una sorta di duello. Più che apprezzabile, poi, è l’uscita dal recinto della routine con cui le chitarre di Winter e Margolin fanno rivivere, con l’ausilio dell’eterno piano di Perkins, il logoro e strausato “Sweet Home Chicago”.

Se giustamente riteniamo, o meglio lo crediamo tale, di sorvolare su “Rocket 88” e “Mama Talk To Your Daughter” dove il velo del conformismo sonoro ha la meglio, non possiamo esimerci dal collocare sul podio “Help Me”, “How Long?” e “Instrumental”. Se la prima, nonostante la lunghezza e la sua notorietà, ci viene proposta da un Cotton che entra via via nella parte sia con il suo strumento che con la voce rauca ben sostenuta dal basso di Calmese e dal piano di Perkins, prima che la chitarra di Winter dialoghi con lui dopo aver instaurato un proficuo scambio di idee con la sezione ritmica, il tutto senza gli eccessi inutili tanto cari ad entrambi. Il secondo è un tempo medio in cui Cotton cavalca le note quasi con affetto, mentre Winter ne dipinge il ritmo senza parossismi. Lo strumentale, benché sia la traccia più estesa dell’opera (12’ e 16”), e forse quella che  James Cotton marca a fuoco. Infatti, la sua prestazione armonicistica è tutta imperniata sul richiamo rurale del suo strumento, quel soffio che induce a dimensioni rabbiose, ripetitive ma mai noiose (cancellando così i nostri timori inconsci), al cui risultato incredibile partecipano attivamente Calmese e Smith.

E’ insomma un concerto corale che si avvale certamente di Johnny Winter e James Cotton mai ascoltati così presi nella parte di bluesmen, ma sulla cui riuscita, e questa è una nostra idea personale, domina la presenza/assenza imperitura di Muddy Waters. O meglio del suo ineguagliabile carisma.


L’omaggio

Già ideatore e produttore dei due volumi “Chicago Blues: A Living History” così come della formazione della Heritage Blues Orchestra, Larry Skoller ha pensato di mettere insieme un omaggio a Muddy Waters “Muddy Waters 100” (Raisin’ Music 2015) nel centenario della nascita (sebbene sia ormai accertato che fosse nato nel 1913). Dopo attenta valutazione ha scelto come leader e voce guida del progetto John Primer, musicista di lungo corso e per un periodo chitarrista di Muddy Waters, fino alla morte di quest’ultimo. Quanto Primer sia a suo agio col repertorio del suo vecchio mentore lo si avvertiva dalla versione di “Feel Like Going Home” sul primo “Chicago Blues: A Living History” coi soli Kenny Smith e Felton Crews, tra l’altro qui riproposta in identica chiave. Come era facile previsione, Skoller ha messo attorno a Primer fior di musicisti, collaboratori abituali, abbiamo citato la sezione ritmica, poi troviamo l’alternanza di armoniche tra Vincent Bucher, Billy Branch e il fratello Matthew, Johnny Iguana al piano, Billy Flynn (anche mandolino), Bob Margolin e Keith Henderson alle chitarre. Accade sovente nel caso di dischi omaggio che vi siano almeno due modi di rileggere l’opera altrui: uno più fedele alla linea che l’artista in questione rappresenta, un secondo più avventuroso e fuori dagli schemi, introducendo elementi altri. Qui li ritroviamo entrambi e se Primer e soci mostrano tutto il loro valore alle prese con la tradizione, tuttavia il secondo approccio adottato, forse per fini didattici o per gettare un ponte sulla contemporaneità, a dimostrazione cioè di come la musica di Muddy abbia esercitato un influsso anche sulla generazione hip-hop, con l’uso di batteria elettronica e altri effetti, può risultare un po’ forzato. E’ il caso ad esempio di “Mannish Boy”, che non si può dire guadagni dal trattamento modernista, che anzi quasi paradossalmente sembra smorzarne la carica. I pezzi pescano dai vari periodi della carriera di Waters, con qualche sorpresa benvenuta e qualche scelta ovvia. Pensiamo a “Got My Mojo Working”, peraltro un buon duetto con Shemekia Copeland o “I’m Ready” che acquista un senso solo per la partecipazione di Johnny Winter e del rapporto che lo legava a Muddy. Come in ogni disco analogo, ci sono gli ospiti, una volta tanto non sono scelti a caso, si tratta di musicisti che hanno suonato con lui (Winter appunto, James Cotton, Margolin) ad altri per i quali la sua musica ha avuto ed ha tuttora una grande rilevanza (Keb’ Mo, Derek Trucks, Gary Clark Jr, Shemekia Copeland). Molto interessanti le pagine meno sfruttate, “Rosalie” col violino di Steve Gibons a rifare quello di Son Simms e “Why Don’t You Live So God Can Use You?”, raro gospel che con la voce di Leanne Faine diventa quasi un pezzo degli Staple Singers. Filologiche le riprese di “She Moves Me” con Skoller a rifare Little Walter e “I Feel So Good”, con Cotton a rifare sé stesso, era infatti nella registrazione originale del 1958. Grande cura anche nella confezione, piena di belle foto e il saggio di Robert Gordon (biografo di Waters), fornisce un ritratto dell’uomo e del musicista che ha segnato come pochissimi altri, la storia di questa musica.

Matteo Bossi

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