La scomparsa di Robert “Wolfman” Belfour lascia un grande vuoto nel mondo del blues

Prima o poi doveva accadere, nulla di strano. Per quel poco che conosciamo Robert Belfour siamo sicuri che l’arrivo della “nera signora con la falce” sia stata accettata con la consueta calma e consapevolezza da parte di una persona ben conscia che la vita terrena, che il buon Dio regala una sola e unica volta, abbia saputo essere generosa con lui. Sembra un paradosso parlando di un uomo che ha vissuto nel

Robert "Wolfman" Belfour (Rootsway Festival, 18 giugno 2005, foto Gabriele Penati)

Robert “Wolfman” Belfour (Rootsway Festival, 18 giugno 2005, foto Gabriele Penati)

Mississippi da nero afroamericano – orgogliosamente afroamericano – eppure ogni qualvolta abbiamo incontrato Mr. Belfour, sia nelle sue rare apparizioni italiane che in Norvegia o nel suo amato Deep South, abbiamo avuto la piacevolissima sensazione che la vita per lui sia stata piacevole. Una vita non facile, fatta di duro lavoro, anche di umiliazioni per il suo colore della pelle, ma piacevole. E la musica, la sua musica, il suo blues, riconoscibile già dalle prime note di quella chitarra perennemente scordata (e volutamente), è stata l’artefice principe di questa sua serenità che trasmetteva contagiando chi lo ascoltava. Ecco, è così che ci piace ricordare l’uomo che si nascondeva dietro un aspetto di assoluta riservatezza, con lo sguardo spesso torvo e scrutatore ma che sapeva aprirsi come un libro appena percepiva che si era sulla sua stessa lunghezza d’onda.

Robert "Wolfman" Belfour (Rootsway Festival, 18 giugno 2005, foto Gabriele Penati)

Robert “Wolfman” Belfour (Rootsway Festival, 18 giugno 2005, foto Gabriele Penati)

Nato a Holly Springs, 74 anni orsono, e cresciuto a Red Banks lungo la Highway 78 per poi trasferirsi a Memphis sul finire degli anni ’60, è diventato uno dei principali portavoce dell’Hill Country Blues, sulla scia di Junior Kimbrough, Otha Turner e R.L. Burnside, influenzando notevolmente i giovani musicisti che stavano apparendo sulla scena musicale nell’ultimo decennio del secolo scorso, grazie anche (e soprattutto) ai suoi album usciti sotto l’egida della Fat Possum. Album che hanno lasciato il segno, così come la sua personalità. La morte, avvenuta per complicanze dovute ai suoi problemi di diabete, ci ha privato di questa fondamentale figura del blues del dopoguerra nella sua casa il 26 febbraio scorso. Oggi i parenti, come troppo spesso accade, sono in grave difficoltà a sostenere le spese per il funerale, tanto che la Memphis Blues Society ha attivato una raccolta fondi per poter dare un meritato contributo in modo che si possa dare un degno addio a questo grande bluesman. Vogliamo salutarlo ascoltando la sua musica in rigoroso silenzio e ringraziandolo per le tante emozioni che ci ha regalato.

 

Antonio Boschi

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