Il ritorno del Festival Blues nel capoluogo lombardo, evento lungamente assente da molti anni, ha avuto luogo nel centralissimo Teatro San Babila raccogliendo sia il successo di pubblico registrato con il tutto esaurito in entrambe le serate, sia per la qualità proposta dalle performance musicali. Responsabile dell’iniziativa, l’associazione “The Blues Place” della famiglia Capurso, appassionati che da tempo coltivavano il sogno di organizzare una manifestazione dedicata alla musica del diavolo. Il cartellone, ha visto succedersi sul palco cinque gruppi, quattro di essi incentrati sul ruolo dell’armonica, complice la passione per lo strumento del giovane Andrea Capurso, armonicista a sua volta. A fare gli onori di casa, introducendo ogni band, la voce di Virgin Radio, Maurizio Faulisi, con puntualità e simpatia.

Foto di Michela Luoni

Venerdì 3 maggio ha cominciato l’inglese Giles Robson, già coi Dirty Aces e lo scorso anno co-titolare di un CD acustico con Joe Louis Walker e Bruce Katz. Qui era accompagnato da un trio italiano, formato da Pablo Leoni (batteria), Ettore Cappelletti (chitarra) e Max Pierini (basso). Le cose però stentano ad ingranare, i brani si dilatano un filo di troppo e qualche sfasamento, stante le capacità tecniche di ognuno, purtroppo si palesa. Coinvolge il pubblico su “Sarah Lee” poi ottempera ad una richiesta, l’esecuzione cioè di “Commit A Crime /Evil”. L’armonica di Robson dimostra di conoscere la tradizione e dà vita a qualche momento simpatico, un duello con la chitarra Cappelletti, ma l’impressione è quella di una certa uniformità esecutiva che danneggia i diversi brani.

Foto di Michela Luoni

A seguire la Treves Blues Band che gioca in casa e davanti al proprio pubblico è carica ed ha buon gioco. Il tour dei settant’anni del “puma di Lambrate” dimostra come lui e il gruppo continuino a divertirsi e a divertire sul palco.

Il set è molto vario, da “Summertime Blues” a un bello slow ignoto ed autografo solo suonato, dal rock’n’roll “Lodi”, apprezzata anche da Springsteen al Circo Massimo tre anni fa, quando la TBB ebbe l’onore di aprire per lui. “Walking Blues” suonata tutta attorno al microfono in acustico,  una soave “Between The Devil And The Deep Blue See” e una versione bluesy di “Honky Tonk Women” in omaggio ai Rolling Stones. Spazio a Serra e alle sue pentole in una “sfida” ritmica col pubblico. Un brano in odore di bluegrass del solo Gariazzo e la ripresa di “Blues Attack”(Landreth) contribuiscono ulteriormente ad allargare il repertorio. Un medley strumentale con accenni a vari classici anni Sessanta/Settanta dà modo a Gariazzo di lanciarsi alla chitarra in passaggi particolarmente ispirati. Su “Bright Lights Big City” la presentazione del gruppo e un bis subito accordato, «a una certa età così non si perde tempo» ironizza Fabio, la cui armonica sa trovare misura e profondità, un po’ come quella del suo amico Musselwhite.

Foto di Michela Luoni

Sabato 4 maggio, tocca a Francesco Piu accompagnato da Silvio Centamore alla batteria. Non ha molto tempo a sua disposizione, poco più di mezzora, ma  impiega pochissimo a portare il pubblico dentro il concerto. Belle dinamiche chitarra/batteria e un repertorio che padroneggia da anni. Sempre di grande effetto la sua interpretazione di “Trouble So Hard”, ma molto valide anche “Down On My Knee” e “Jesus On The Mainline”. Una introduzione riuscita, che sarebbe stato bello prolungare.

E’ già tempo della seconda band in programma, Egidio “Juke” Ingala & The Jacknives. Ensemble molto affiatato, in cui la sezione ritmica Max Pitardi (basso) ed Enrico Soverini (batteria) sono un meccanismo oliato, che rimanda per essenzialità e swing ai gloriosi Aces. Marco Gisfredi poi è un chitarrista mirabile per suono e conoscenza della tradizione, fraseggi che abbinano secco e pulito (nessun pedale). Ingala alterna brani propri alla ripresa di qualche classico, come “Born Lover”, lasciando viaggiare la sua armonica con fluidità, sulle orme di maestri quali George “Harmonica” Smith e Little Walter. Scende dal palco e diverte suonando senza amplificazione, poi omaggia un altro grande semi-dimenticato come Eddie Taylor. Conclude molto applaudito una prestazione convincente.

Foto di Michela Luoni

Billy Branch per sua stessa ammissione torna sempre molto volentieri in Italia e a Milano mancava da diversi anni. Arrivato col suo gruppo da Chicago, città tra l’altro gemellata con il capoluogo lombardo, Billy sin dal soundcheck pomeridiano aveva voglia di suonare. Da qualche anno i Sons Of Blues sono formati da Andrew “Blaze” Thomas e Marvin Little, il veterano giapponese Sumito “Aryio” Ariyoshi alle tastiere e il chitarrista Giles Corey. Gruppo molto solido, improntato alla tradizione blues, condita con parecchi omaggi ai maestri che lo hanno formato, uno su tutti Junior Wells, del quale interpreta una convinta “Hoodoo Man Blues”. Scorrono altri classici come “My Baby”, una passeggiata in platea, terminata lanciando baci a una signora, «posso farlo», dice lui, «è mia moglie!» e poi una “Help Me” in cui invita altri tre armonicisti, Giles Robson, Edo N’doss e Andrea Capurso, per una jam collettiva. Lascia spazio a Giles Corey, credibile al canto in “Don’t Let The Green Grass Fool You” oltre ad essere chitarrista di vaglia, poi nel finale Branch propone pure la sua divertente “Blues Shock”,  canzone titolo del suo album del 2014, che presto avrà un seguito con un CD tributo a Little Walter in uscita quest’estate per Alligator. Un concerto di livello in cui band e leader hanno legittimato una posizione d’elite tra i gruppi di Chicago Blues attuale, padronanza dello strumento, rispetto per la tradizione riproposta non in modo pedissequo ma vivificandola, uno spettacolo dinamico personalissimo (finalmente) che chiude degnamente la serata. Non resta che augurare lunga vita a queste Milano Blues Sessions, affinché diventino un appuntamento fisso e chissà, magari anche più esteso.

Matteo Bossi e Marino Grandi

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